Quando la passione vince su tutto. Intervista a Maurizio Galimberti.

Maurizio Galimberti
Maurizio Galimberti

Spesso, ingerenze esterne ci indirizzano a percorsi professionali che non ci appartengono e non mettono in evidenza il nostro talento.

È anche vero, che, altrettanto spesso, passione e inclinazioni naturali hanno il potere di sfondare il  presente per modificare , infine, il futuro.


Ecco, quanto ci racconta Maurizio Galimberti, fotografo italiano tra i più quotati a livello internazionale.

Buongiorno Maurizio, quando ci relazioniamo con  artisti, la  nostra prima domanda è ormai un rituale: quando è avvenuto il tuo primo incontro con l’ arte?
A te, chiediamo: Quando è avvenuto il tuo primo incontro con la fotografia?


Materialmente,  il primo contatto con la fotografia è avvenuto grazie a un’ Agfa Optima che avevamo a casa; era una compattina , senza pretese, con un rullino, se non ricordo male 24×36.

Bene, quella macchinetta, mi ha fatto da subito innamorare della fotografia.

Così, ogni qual volta mi recavo  in cantiere con papà,  all’età di 10/12 anni, prendevo il livello, uno strumento utilizzato per fare le quote dei cantieri e ci guardavo dentro, fingendo fosse una macchina fotografica.

Se ti chiedessi del tuo primo scatto?

La mia prima fotografia è stata fatta durante un pranzo di famiglia quando avevo dodici anni, al famoso ristorante Gerosa a Lambrugo in Provincia di Como.

Inizialmente per te la fotografia era una passione, inseguito vi è stato un cambio di rotta.
Qual è stato il momento in cui hai avuto non solo il sentore, ma anche la certezza che sarebbe diventata la tua professione?

L’ho capito nel 1990: Polaroid Italia ha iniziato a farmi lavorare molto per l’azienda, ovviamente da esterno.
AI tempi facevo il geometra per l’impresa di famiglia, ma ero insoddisfatto, deconcentrato, cosa che non accadeva in campo fotografico.
Così, nel 1992 ho preso la decisione di aprire la partita IVA. Collaboravo solo con Polaroid, sempre da esterno, facendo immagini di ricerca.
Utilizzavo le pellicole integrali: FX70, 600, SX70, la così detta linea amatoriale, cioè non usavo banchi ottici.
Poi, Polaroid mi chiesto di collaborare fisso con loro.


Parliamo di contenuti, come scegli cosa immortalare?

Sai, i ritratti, sono sempre commissionati o all’interno di manifestazioni internazionali  dove fotografo  star e non solo, come mi è capitato in tantissime edizioni della Mostra del Cinema di Venezia, del Festival di San Remo o in svariate altre occasioni internazionali per Cartier,  per Polaroid a New York o per Gallerie a Londra.

Dai primi anni 90’ ad oggi è passato del tempo.
Ripensando al tuo percorso professionale c’è un aneddoto che ricordi con il sorriso?

Sicuramente, quando feci il ritratto a Johnny Depp, il quale rimase davvero esaltato.
Eravamo all’  hotel  De Bains e dovevamo portare il ritratto a Palazzo del Cinema al Lido Di Venezia che si trovava a trecento metri da noi.

Allora, lo prese, lo mise davanti alla faccia, uscì dall’ hotel e iniziò a camminare per strada.
Venne riconosciuto dalle fans: provate a  immaginare, nel 2003 era davvero una star pazzesca, dovemmo così scappare con la macchina messa a disposizione dalla mostra del cinema e recarci a destinazione.
È un ricordo bellissimo, perché lui era esaltato e non smetteva di abbracciarmi.

Poc’ anzi hai citato un grande attore con la quale hai avuto modo di lavorare. Inevitabilmente ti chiedo: se potessi, invece, incontrare un artista del passato, cosa gli chiederesti?  Ma soprattutto, a chi porresti la o le tue curiosità?

Se potessi incontrare un artista del passato…beh, è una bella lotta tra Man Ray e Picasso.

Essendo i miei due miti, chiederei loro cosa pensano del mio lavoro, della fotografia istantanea e quale rapporto avrebbero avuto con quest’ultima.
Avendo studiato le loro filosofie e conoscendole ampiamente, gli direi che sarebbe bello collaborare insieme.

Passiamo a un verbo: comunicare.
Quanto conta la comunicazione al giorno d’oggi?

La comunicazione conta tantissimo, è fondamentale.
Per me, però, deve avere sentimento e pathos, che a volte non ha.

Recentemente ho scritto un post su Instagram, in cui affermo che la mia fotografia non è come l’ultimo video dei Maneskin: freddo, manageriale, patinato, che non lascia nessuna imperfezione allo spettatore.

Il mio lavoro è come Freddie Mercury che, nel corso del live sale sul palco, si siede al piano forte e,  attraverso musica e fisicità scatena l’inferno in pochi secondi, senza tanti estetismi o ripetizioni.

Un live, eseguito con il proprio sangue, sudore e bellezza interiore.

Che differenza c’è nella percezione dell’arte e della fotografia  tra Estero e Italia ?

Secondo me, in Italia la fotografia è forse l’ultima arrivata.

Adesso si sta facendo sempre più strada.
Non abbiamo i collezionisti che ci sono all’estero, probabilmente il nostro background è molto classico e la storia lo insegna, mentre, soprattutto gli americani, sono molto innamorati della fotografia.

Non avendo avuto molta storia dell’arte sicuramente si sono buttati su questa strada, anche se amano molto l’arte antica, moderna, contemporanea in tutti i suoi passaggi.


La differenza di percezione vive dentro al nostro patrimonio visivo culturale che, a volte, non ce ne rendiamo conto, gli stranieri, al contrario, avendo meno bello di noi, lo percepiscono maggiormente.


Per quanto riguarda la fotografia, all’estero, a fare la differenza sono i grandi musei e le grandi aste ruotanti intorno alla stessa, mi riferisco a  Londra e New York.

Arte e fotografia: cosa rappresentano per te?

L’arte per me è tutto, è un modo di vivere e respirare.

La fotografia è un modo di vivere, un respirare, è una passione, una fata ignorante che vive dentro di me, mi buca la pancia.

Tutti i giorni necessita di essere alimentata, nutrita, per cui il mio sguardo mangia la fotografia.

Per proporle  bisogna studiare?

Certo, occorre averle studiate, perché sei i tuoi occhi vedono solo come vedono loro e basta, allora non vai da nessuna parte.

Ti faccio un esempio: se devo fotografare un bicchiere e lo guardo solo con i miei occhi, sono due occhi che guardano un bicchiere.
Se lo osservo attraverso gli occhi delle storie di pittura, scultura, fotografia e del cinema sono milioni di occhi.

Liberandomi poi, di tutte le storie che trovo sul bicchiere e facendo un mix tra il mio sguardo e il passato, a livello d’inconscio, verrà fuori il mio sguardo contemporaneo con il mio strumento contemporaneo che, in questo caso, è la fotografia su quel bicchiere.


Italo Calvino diceva:

“La fantasia è come una marmellata che va spalmata sul pane solido per evitare il molle del banale”.


Il pane solido è la cultura, la conoscenza, il background.
Di conseguenza, studiando si cresce come artisti.


In conclusione, ringraziamo Maurizio per il tempo concessoci.

Mara Cozzoli

Intervista in collaborazione con Fondazione Mazzoleni e Arteonline20

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