David Berkovitz: MUSICA – DI CARTA – PER ORGANI CALDI Gianluca Marziani.

Gianluca Marziani
Gianluca Marziani

Testo critico scritto per la personale di David Berkovitz “Minimal, ma non troppo”

( Il termine “Minimal , ma non troppo” arriva da un idea del critico Luigi Meucci Carlevaro)

C’era una volta… un taglio che cambiò le attitudini del quadro nello spazio del mondo. Il suo artefice rispondeva al nome di Lucio Fontana, colui che comprese l’irradiazione cosmica dell’opera, passata dall’essere frangente di uno spazio domestico a finestra sul clamore astronomico e sul futuro quantistico del ventunesimo secolo. 

C’è questa volta… un passaggio genomico di cellule ideative che sono detonazione per una trasmissione ereditaria. David Berkovitz ha metabolizzato Fontana per evolverne lo spazio estetico dentro uno spazio concettuale.

Il risultato conferma il valore atomizzante delle filiazioni sane, del modo in cui certi archetipi si trasmettano nel tempo allungato della Storia, ribadendo quanto la creazione artistica sia un processo orizzontale che attraversa luoghi ed eventi, verticalizzandosi non appena qualcuno fa il giusto uso alchemico di quella cellula rivoluzionaria (in questo caso il taglio della tela) che è memoria storica e motore per il futuro.

C’è sempre una nuova volta… quando il riuso di un archetipo produce un salto biodinamico del quadro. DB ha costruito uno scheletro – l’idea alla base di un processo – che definisce la riconoscibilità del tema estetico.

E’ uno scheletro – i suoi tagli sequenziali – di materia cartacea, flessibile eppure arcigno come riesce ai capelli o alle foglie.

La gestione della cellulosa ha creato la linea sensibile della recente produzione, dove le griglie dei tagli in sequenza, precise nel loro timbro ritmico, non cercano lo spazio cosmico ma la metafora geometrica di una superficie organica, di un’esperienza sensibile, di un rituale del corpo rigenerato. 

La geometria e l’essenza cromatica si fanno espressione carnale di un dolore collettivo

DB ha compreso l’azione che lega la geometria metaforica del quadro al proprio resoconto biografico.

Quei movimenti impercettibili, figli di una trascendenza del gesto, delineano uno stato d’animo tanto lavico quanto pacificato: puro controllo zen tra dolori e passioni, ferite reali e metaforiche, malessere e rilancio.

L’artista somatizza nei tagli la sua declinazione emotiva dei moti interiori, distillando il pathos nei contrasti cromatici rigorosi, nei modi essenziali di ritmare le fenditure, nel minimalismo che congela il dolore in una glaciazione plastica. 

Il sangue delle ferite si raggruma nel rosso levigato

Il nero delle bruciature si raggruma nel nero levigato

Il bianco dell’apocalisse si raggruma nel bianco levigato

L’epoca dei social media tratta l’estetica organica con modi che amplificano le patine superficiali, la levigatezza, le somiglianze aspirazionali.

DB ascolta l’eco ciclica del presente per plasmarla in modo ordinato e pulito, leggibile e universale, ricorrendo alla metafora geometrica di uno spartito iconografico.

Niente espressività in polpa, lacerazioni o grumi alla Hermann Nitsch, niente aderenze truculente al rimosso corporeo; qui funziona la sublimazione postmoderna, quel rito di chirurgia digitale che interpreta il presente in maniera asincronica, coerente al concetto shakesperiano, poi ripreso da Philip K. Dick, della frase TIME IS OUT OF JOINT.

Le opere di DB medicalizzano il rumore del vero attraverso il rigore di un mondo parallelo, dentro quel tempo appena fuori dal tempo, uscito dai propri cardini per cogliere la superficie di un alias più resistente, svincolato dal tema fisiognomico, libero di riconnettersi alle geometrie simboliche della civiltà umana. 

Time is out of joint incarna qui la materia e l’azione di un lungo passato che si aggancia al presente con quella perenne sfasatura, un glitch che fa procedere la carta a passo più lento, come fosse l’ombra continua di una téchne indecisa.

L’artista procede dal grado uno della superficie cartacea, da una genealogia elementare che esclude la piena sincronicità al tempo tecnologico.

E’ una resistenza senza ottusità quella dell’arte visiva che recupera il processo manuale, la lentezza operativa, la dilatazione dei princìpi rivelatori.

Su queste basi il nostro DB costruisce relazioni affettive con la carta, usandola come natura naturans, un paesaggio sensoriale dal potenziale infinito e dal risultato rigenerante. 

Assistiamo al rituale di un minimalismo caldo, nato da processi geometrici essenziali che qui si irrorano con un ossigeno postdigitale.

Citando un libro di Charles Bukowski, scaturisce una musica per organi caldi, dove il quadro – così come nei 36 racconti del romanziere americano – distilla l’eco radiografica del dolore in modi semplici e universalmente interpretabili.

La carta qui canta eccome ma lo fa con partiture che rimandano al tenore elettronico di Alva Noto, Donato Dozzy, Caterina Barbieri, Saint Abdullah… musicisti che usano bordoni, cicli risonanti, ascensioni progressive del basso, facendo col suono la stessa cosa che prende forma nei quadri in mostra, agendo su moltiplicazioni e sequenze, su variazioni minime, su rivelazioni che si mostrano lentamente, seguendo il filo rosso del tempo nello spazio bianco dell’infinito.

C’era una volta .,,,,,

Gianluca Marziani

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