IL MIO INCONTRO CON L’INSTALLAZIONE DI MART SIGNED A VILLA BERTELLI di Gionata Simoni.

MART SIGNED
MART SIGNED

La conoscenza è sempre da preferire all’ignoranza, ma anche quest’ultima ha il suo fascino, quando la si declina non nella brutalità dell’ottuso, ma nello scorrere libero di pensieri e associazioni non premeditate.

Così tra le opere della mostra di Villa Bertelli intitolata “Andy Warhol e la new pop” ho provato piacere a lasciar accadere dentro di me le opere dell’artista Mart Signed esposte al secondo piano.

Dico lasciar accadere dentro perché questa è la mia visione dell’arte: non un’opera in qualsiasi modo esposta, ma un accadimento nella mia coscienza; un cambiamento, al limite massimo una metanoia, che avviene in me, come conseguenza della presenza dell’opera davanti ai miei occhi.

Così di fronte all’opera di Mart Signed esposte, iniziano le mie associazioni di pensiero, come i tasselli del domino allineati che cadono.

Prima la parola graffiti: segni sui muri non autorizzati, proibiti, vandalici, di cui so davvero poco, ma che una certa, piacevole, carezzevole, tradizione, vuole far risalire alla comparsa di scritte sui muri di Philadelfia nel 1955, all’indomani della morte di Bird, Charlie Parker, il genio jazz del bebop.

Per la prima volta apparvero scritte, che poi divennero meme ripetuto per infinite occasioni analoghe: Bird live ( Bird vive ).

Sebbene adori Parker, ahimé, appartenendo a una civiltà millenaria, difficile per me non andare indietro ai muri di Pompei e i suoi migliaia di graffiti, giunti miracolosamente fino a noi attraverso la tragedia vesuviana.

Ma la di là della primogenitura, quello dei graffiti è senz’altro movimento artistico, visione dell’essere, intenzione dello spirito, narrazione visiva, teorizzazione estetica, spaccatura di scuole, collocazione nel tempo: fine XX secolo.

Trovo affascinante e inesauribile lo sforzo della filosofia estetica di rispondere alla domanda: Cos’è l’arte?

Com’è noto, le uniche domande attorno alle quali vale la pena affannarsi sono quelle senza risposta, che custodiscono gelosamente al loro interno la loro ragion d’essere, come il nocciolo ribollente di un pianeta vivo.

Così ogni risposta al quesito “cos’è l’arte” è un punto di partenza, un inizio di sfida, per il prossimo artista che produrrà un’arte, che è tale, ma non risponde all’ultima definizione data.

Così, se arte è qualsiasi manufatto, dichiarato come tale, da un’istituzione o una persona di riconosciuta autorevolezza nel mondo dell’arte stesso – definizione utile per far passare per arte qualsiasi cosa transiti per un museo, galleria, o collezionista/intenditore – ecco che il graffito inizialmente supera beffardo questa definizione.

Non richiesto da nessuno, se ne sta lì a impiastricciare muri, treni della metropolitana, camion negli hangar.

Ma quanta freschezza, quanta violenza artistica!

L’emozione di rabbia e paura, nel farlo, che inserisce l’atto dell’artista, e la sua emozione interiore, nell’opera: al modo dell’espressionismo astratto dell’action painting.

La rapidità necessaria a non essere colti dalla polizia, analoga a quella necessaria all’affresco rinascimentale perché la base non secchi.

L’immediatezza del messaggio al modo della pop art, per essere rivolto al passante distratto e frettoloso, anziché al meditabondo esperto d’arte.

Insomma questi segni – spesso sulle lamiere dei treni della metropolitana, perché si diffondano nel sistema venoso della grande metropoli – sono arte, qual che sia la sua definizione.

Poi arriva lo spirito della storia, e i pezzi del domino continuano a rotolare, decretando sentenze imprevedibili.

Le istituzioni provano a mostrare il ghigno arcigno degli arresti e le manette per arginare i vandalismi.

Ma si scopre che il fenomeno è troppo largo e diffuso, i numeri costringono a scegliere tra affollare carceri o trattare.

Così mondi lontani si parlano, appaiono i distinguo, le sfumature: burocrati parlano d’arte, come vegetariani di bistecche.

Si accetta di lasciare qualcosa perché vale.

Di più, si propongono muri leciti su cui usare bombolette con il plauso delle autorità. E qui arriva la mia idea sull’istallazione di Mart Signed a Villa Bertelli.

Appesi alle pareti ci sono realizzazioni che, con efficacia realistica entusiasmante, riproducono muri di strada, con tutti gli orpelli che addobbano naturalmente i muri metropolitani, come canale, luci, griglie, etc etc .

Sui muri, l’opera del graffitaro. Cos’è successo?

I graffiti non solo hanno avuto il beneplacito delle autorità in certe strade, adesso sono entrati trionfalmente in una mostra, un luogo prestigioso per esposizioni, un palazzo dell’ente pubblico, con tanto d’inaugurazione di Sindaco, fascia tricolore, e autorità.

E’ arte riconosciuta dalle istituzioni.

Non a caso, per me, Mart Signed, ha messo come graffito riproduzioni che si rifanno all’arte classica o rinascimentale!

Un grafffito fattosi accademico.

Ma ecco che l’autore, al centro della stanza, pone un graffito/quesito.

Circondato da bombolette come strumenti archetipici del mestiere, e lumini da morto, si chiede: dov’è la street art?

Domanda legittima: non ha forse perso, così autorizzata, irreggimentata, la sua ragion d’essere?

Nella calma e sicurezza dell’artista riconosciuto, non vengono forse a mancare tutte le sue caratteristiche base, come le abbiamo testé descritte?

Il suo successo massimo, non è anche la sua fine?

Così colpisce il contrasto dell’installazione di Mart Signed, tra una dichiarazione di morte della street art, con tanto di lumini votivi, e le affascinanti opere appese alle pareti di Villa Bertelli. Verrebbe da dire: è morta la street art, viva la street art!

Gionata Simoni

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Henri Matisse, Mimosa, 1949-51.

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