Andrea Grieco, ombre e luci di una creatività costruita nel tempo…

Andre Grieco
Andre Grieco

Per introdurre Andrea Grieco prendiamo in prestito il testo scritto da Paola Fiorido e pubblicato nel numero di Novembre 2021 di Exit Urban Magazine

Un artista del collage, come un sarto con le sue forbici argentiane, colla, riviste e carte rielabora dalla crudezza delle sue riflessioni immagini conturbanti, spaventi erotici.

Dalla sua opera emergono i suoi riferimenti culturali che spaziano dalla cinematografia, alla musica, all’ arte e alla letteratura, fino al sotterraneo all’ inesplorato attraverso una scelta cromatica che caratterizza la sua poetica, la sua visione estetica, come dice Grieco:- utilizzato in alcuni contesti il rosa può essere più scuro del nero.

Paola Fiorido

Abbiamo fatto qualche domanda ad Andre Grieco per conoscerlo meglio , lasciando a lui il piacere di raccontarsi.

Il tuo primo contatto con l’arte?

Difficile dirlo con esattezza, però credo che una prima percezione con l’espressione artistica sia stata di tipo suggestiva; nel senso che, essendo avvenuta quando ero molto piccolo, presumo non possa essere stata che inconsapevole, oserei dire inconscia.

Sapevo perché mi veniva raccontato, per esempio, che mio padre si dilettava coi pennelli e che abbia smesso il giorno della mia nascita, e di questa sua attitudine creativa ne è testimone un dipinto, tra l’altro credo straordinario, che campeggiava nel salone della casa d’infanzia e che ora conservo gelosamente; nonché il fatto che mio padre, ogni volta che poteva, si dilettava a tempestare di chiodi delle tavole di legno e poi vi tendeva fili dei più disparati materiali, dal cotone ai cavi elettrici in PVC, ricavandone trame articolate e coloratissime.

Immagino che queste due suggestioni mi abbiano fatto percepire naturale il fatto di esprimersi creativamente, pertanto disegnare per giorni interi era me un’attività spontanea e, allora, carica di gioia, anche se i soggetti dei miei lavori erano quasi esclusivamente creature fantastiche e soprattutto mostruose.

Solo molto tempo dopo è giunta una sorta di consapevolezza del senso storico e semantico che sostanzia l’arte.

Più precisamente, quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione una professione?

In realtà non sono ancora giunto al punto, e non so se vi giungerò mai, di concepire la creatività una professione.

Credo, invece, che si possa parlare di presa di coscienza dell’impossibilità di intendere l’esistenza senza istinto estetico, che a volta si tramuta in urgenza pratica, a prescindere da quale sia l’ispirazione, il materiale a disposizione o il medium che si adotta.

Ecco, questa chiara sensazione l’ebbi quando vidi Inferno di Dario Argento per la prima volta e mi resi conto che si potessero costruire mondi visionari, per quanto spaventosi, straordinariamente autonomi e paralleli a quello reale.

E la sensazione mi si confermò alla visione di Suspiria.

Da allora immagini, suoni e colori cominciarono ad apparirmi diversamente.

La tua prima opera?

A parte i migliaia di mostri che realizzavo durante l’infanzia (peccato non ne abbia conservato nessuno), che a volte mi conquistavano la simpatia e l’ammirazione di qualche insegnante e altre mi costavano dei rimproveri per il fatto che non disegnavo mai qualcosa di rassicurante, penso che i miei video possono considerarsi le mie prime, consapevoli opere, perciò dico il cortometraggio Venusia.

Come scegli il soggetto dei tuoi lavori?

Davvero non c’è una regola d’ispirazione o un principio organizzatore.

Di sicuro qualunque cosa finisca per attrarre la mia attenzione, al punto tale da scuotermi e spingermi a darle una forma, attraversa probabilmente un filtro interiore e, come se s’impossessasse di meccanismi e funzioni vitali, crea un blackout fino a quando non me ne libero rigettandolo fuori con un oggetto catalizzante: a suggestionarmi può essere un’immagine, un racconto, una persona; come poi possa affrancarmi da quest’ossessione momentanea dipende da quello che ho a disposizione al momento, pigmenti, ready-made, videocamera, qualunque cosa.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso?

L’arte, come la vita, può farsi espressione di tutta la gamma delle emozioni e sensazioni possibili, ma almeno per quanto mi riguarda io realizzo opere solo quando sono turbato, quando provo dolore o un moto particolarmente sgradevole, per cui più che il sorriso provo soddisfazione e anche un certo sollievo quando sono soddisfatto dell’opera terminata, soprattutto se mi accorgo che riesco a trovare una sintesi tra l’orrore e un certa idea di bellezza.

Se potessi incontrare un artista del passato, chi e cosa gli chiederesti?

Mi piacerebbe incontrare, meglio ancora restare nascosto a vederli lavorare ai loro capolavori, Francis Bacon, Marcel Duchamp, Piero della Francesca e un’infinità di altri, ma senza chiedere loro mai nulla: sono dell’avviso che le opere debbano parlare da sole e lasciare che si ammantino di un elemento misterico e indecifrabile, sempre.

Quanto conta la comunicazione ?

Premettendo che un livello e una modalità comunicazionale di un’opera, come di ogni nostro gesto, ogni nostra parola o nostro comportamento, esiste a prescindere, ma il valore che assume questo aspetto dipende dal motivo di fondo che spinge l’autore a esprimersi.

Non amo l’arte che vuol comunicare a tutti i costi perché in questi casi si è più sovente di fronte a propaganda ideologica o commerciale; preferisco quelle opere che innanzitutto intessono un dialogo con il loro creatore, in questi casi è spesso una comunicazione emozionale, essenziale.

Cos’è per te l’arte?

Una persona che mi affascina da morire e che non conoscerò o possiederò mai fino in fondo.

Per proporre arte bisogna averle studiate?

Non obbligatoriamente.

Negli anni ho conosciuto tante persone che hanno frequentato accademie e acquisito perizia tecnica, ma che poi deficitavano di idee originali, e altre, invece, che hanno letteralmente espresso un mondo trovando casualmente o istintivamente la loro strada e il loro stile.

Il mio è un percorso ambiguo, spurio, perché ho studiato cinema, letteratura, che di fatto insegno, e pertanto questi dovrebbero essere i miei codici d’espressione, ma in realtà tali ambiti mi hanno spinto a studiare e apprezzare altri linguaggi e volermi cimentare con essi. Per cui io sono un dilettante permanente, sempre avido di conoscere e imparare.

Se incontrassi te stesso a 18 anni cosa ti consiglieresti ?

Meglio lasciar stare.

Cosa ti aspetti da un curatore?

Sono partito come video maker, curando ogni aspetto dei miei prodotti audio-visivi, la storia, la fotografia, il suono, il montaggio, la promozione del prodotto finito, per cui ho la smania del demiurgo, quindi per rimettermi nelle mani di qualcuno debbo sentirmi a mio agio e percepire di potermi fidare e, ovviamente, debbono esserci affinità di sensi e fini.

Cosa chiedi ad un Gallerista?

Serietà e onestà mi sembrano scontati, ma ancor più importante è l’impegno che il gallerista deve prodigare nel promuovere qualcosa e qualcuno in cui deve credere assolutamente, altrimenti diventa soltanto una questione economica e, sinceramente, non questo non è ciò che m’interessa.

Grazie Andrea per la piacevole chiacchierata

Alessio Musella

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