VISITA ALLO STUDIO DI ALBERTO CASIRAGHI a cura di Sergio Mandelli.

ALBERTO CASIRAGHI
ALBERTO CASIRAGHI

11.000.

Anzi no, lo scrivo diversamente: U N D I C I M I L A, così magari si capisce meglio.

Undicimila è un numero di per sé neutro, se non si riferisce a qualcosa di preciso; ma se parlo di una casa editrice che ha edito 11.000 pubblicazioni diverse, ecco che allora il numero assume un peso specifico straordinariamente alto.

Sto parlando delle edizioni “Pulcinoelefante” di Alberto Casiraghy, con il vezzo della “y” adottato tempo fa per distinguersi fra i tanti che dalle sue parti hanno lo stesso nome e cognome.

Undicimila titoli che adesso sono stati rilevati dal Comune di Milano, ospitati negli spazi della Casa museo Boschi Di Stefano.

Ogni titolo, un piccolo gioiello realizzato in spessa carta di cotone: otto pagine in tutto, compresa la copertina, contenenti un breve componimento poetico (o un aforisma, o un pensiero), stampato con una macchina tipografica a caratteri mobili, e una piccola opera originale di un artista sempre diverso.

40 esemplari al massimo, per ogni edizione, non di più.

Quindi, se tanto mi dà tanto, le persone che Alberto ha conosciuto nel corso della sua vita devono essere migliaia.

E infatti, dopo un po’ che ci parli assieme, hai la sensazione che lui le abbia conosciute tutte, anche se una spicca fra le altre: Alda Merini, con la quale ha costituito un sodalizio che l’ha portato a realizzare, solo per lei, circa settecento dei suoi libretti.

“Maurizio Cattelan ha dormito sul quel divano lì”, mi dice cambiando discorso. “È venuto qui che era poco più di un ragazzo e mi ha anche lasciato un lavoro.

Mi dicono che oggi varrebbe 25.000 euro. Ma vallo a trovare qui dentro…”

Già, vallo tu a trovare un foglio di carta di qualche decennio fa in mezzo a questi scaffali ricolmi di libri, a questi mucchi di appunti, cumuli di riviste, montagne di schizzi e progetti sparsi per ogni dove.

Neppure i muri si salvano da questo incombente horror vacui.

Però la cosa più preziosa, che ti mostra con meritato orgoglio, consiste in alcuni cassetti, che se li apri scopri un universo costituito dai caratteri mobili in piombo con i quali lui compone le parole contenute nelle sue edizioni; apri altri cassetti e dentro ci vedi un’infinità di incisioni in legno con le figure più bizzarre: animali fantastici, figure mostruose, complicati elementi geometrici…

Saliamo al piano di sopra e siamo accolti da una parete di maschere africane, per le quali lui nutre un affetto sincero e dentro le quali legge buona parte dell’arte del Novecento – ed è difficile dargli torto.

Apriamo una porta e si disvela una serie stupenda di opere su carta, una più bella dell’altra – fantasiose, colorate: “Il colore mi serve per capire che sono vivo”.

“Sai, ho sempre disegnato, ma perlopiù i miei lavori finivano nelle edizioni; durante il Covid, però, non potevo vedere nessuno e allora mi sono messo a dipingere anche su altri formati, e mi diverto tantissimo”.

Sto ad ascoltarlo, ed ho l’impressione che il suo vissuto sia assai più abbondante di tutto il contenuto – pur notevole – della sua casa.

E mi racconta che il disegno del pulcino-elefante è una sua creazione di quando aveva sedici-diciassette anni; che nella vita ha lavorato come tipografo, come liutaio di strumenti rinascimentali, come scenografo per la pubblicità – e così scopro che molte delle sue maquettes le ho viste in televisione per propagandare marchi famosi.

“Un mondo spazzato via dal computer…”, purtroppo.

E poi: Casiraghy è anche un illustratore, un poeta, un autore di massime e di aforismi, che sono stati pubblicati in volumi a parte.

A proposito di aforismi, me ne porto a casa uno, in particolare, che lui ripete volentieri: “L’importante è tenere la porta aperta. Se la porta è aperta le cose arrivano”. E le persone anche.

Le persone…

Ecco, si ha l’impressione che a lui la gente piaccia proprio tanto; non ha nulla del creativo in veste di orso burbero e solitario, anzi.

C’è una sorta di benevolenza nel suo approccio, una dolcezza gratuita, una amabilità disciolta in ogni suo gesto che ti obbliga a volergli bene.

“Tieni”, mi dice porgendomi una bottiglia: “Questo è il vino prodotto a Portacomaro, il paese di origine di Papa Francesco, dalle uve del vigneto che è stato piantato in suo onore. Mi hanno chiesto di disegnare l’etichetta.”

“Grazie. Alla tua salute!”

“Viva te.”

“Viva noi!”

Sergio Mandelli

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