Klimt. La Secessione e l’Italia a cura di Andrea Grieco.

Klimt. La Secessione e l’Italia
Klimt. La Secessione e l’Italia

Quanto possa farsi odiernamente motivo di titubanza idiosincratica la visita di uno spazio espositivo lo si deve anche all’avversione spontanea nutrita nei confronti di quel ciarpame fatto di post-card, poster, t-shirt, lapis, cup e bag, che sembra aver ormai quasi del tutto transustanziato, di fatto quasi sostituito, il reale valore di un allestimento estetico; la ritrosia è ancor maggiore se la mostra in questione è incentrata su Gustav Klimt, artefice di opere che sono entrate prepotentemente nell’immaginario collettivo, autore di dipinti e soluzioni fagocitate dall’industria culturale, che saccheggia a piene mani nella produzione del pittore viennese per farne gadget.

Pertanto è con una certa perplessità che in un pomeriggio cereo di nubi ci si reca a Roma a Palazzo Braschi per attraversare le decine di stanze in cui si snoda il percorso di Klimt.

La Secessione e l’Italia, mostra che sin dal titolo esplicita l’intento, oltre quello ovvio di incentrarsi sulla caleidoscopica produzione dell’iconico artista, di definire un profilo di quel paradigmatico periodo di Fin de siècle, contestualizzando in maniera opportuna la prolifica e fortunata carriera dell’autore e vagliare il suo particolareggiato rapporto con il nostro Paese.

Insomma, impegno magniloquente che necessita di una curatela impressionante e che, fortunatamente, ha sostanziato l’evento che rappresenta così una vera gioia per il fruitore, offrendo l’opportunità al visitatore di un’esaltante e corroborante esperienza.

D’altro canto, al di là della già spregiudicata e turbolenta capitale parigina, per gli artisti che a cavallo tra XIX e XX cercavano un punto di riferimento l’Italia rappresentava ancora una tappa obbligatoria, avvertita dai componenti del gruppo secessionista viennese tanto indispensabile quanto anacronistica.

E proprio dal confronto con questa realtà che Klimt, più e meglio di altri appartenenti al suo ambiente creativo, seppe attingere ispirazione, riuscendo in un’operazione di sintesi strabiliante tra bizantinismo e modernità, imponendosi nel coevo panorama e proiettandosi in avanti, anticipando pratiche di design e d’arte applicata ancora oggi gravide di potenzialità.

Testimonianza del percorso formativo, nonché della miriade di rivoli in cui si riversava l’energia creativa di questi giovani artisti che scalpitavano per affermarsi in un’Europa in pieno fermento e che di lì a poco si sarebbe schiantata e dissanguata nella Grande guerra, sono le numerose tele dei primordi esposte nelle sale d’apertura della mostra, dipinti nei quali è possibile evincere la bravura fotorealistica di cui era capace Klimt, come pure la sua conoscenza e metabolizzazione dell’attitudine impressionista, entrambe praticate con successo prima di giungere a quell’originale composizione alchemica che lo contraddistinguerà in seguito.

E come lui tanti altri autori, di certo oggi meno noti dell’alfiere di quell’attitudine a ricercare nuovi percorsi espressivi rispetto a quelli anchilosati dell’epoca, ma altrettanto dotati d’indubbio talento: Franz Von Matsch e le sue reminiscenze orfiche, le folgorazioni coloristiche di Vlastimil Hofman o l’avanguardismo già spiccato di Koloman Moser, dei quali la mostra espone straordinari  opere.

Un gruppo eterogeneo, che però seppe catalizzare pulsioni e obiettivi comuni in Ver Sacrum, la rivista fondata da Gustav Klimt e Max Kurzweil, divenuta in breve l’organo di diffusione e sorta di dichiarazione d’intenti del movimento e di cui le teche ora allestite nel Palazzo Braschi contengono molteplici numeri, pubblicazioni che condividono lo spazio, e pertanto vicendevolmente riverberandosi, con i più disparati manufatti partoriti  in seno al quel flusso indomito.

Non solo tele, dunque, ma le più innovative composizioni tipografiche, sculture, progetti architettonici, come pure vasellame, suppellettili e gioielli, sperimentando ogni materiale, sempre con una spiccata sensibilità verso il luccichio sfarzoso e le forme sensuali.

Non sarà dunque per accidente che nelle mani di Klimt persino il soggetto biblico di Giuditta e Oloferne, ricorrente tra gli artisti, si spogli della sua connotazione violenta e sanguinaria per farsi icona di audacia attrattiva, anticipando il prototipo della femme fatale, modello di donna torbida, maledetta, erotica, che imperverserà di lì a poco sugli schermi sfarfallanti di tante sale cinematografiche dell’epoca, e che tutt’ora continua ad inebriare occhi e i sensi

Grieco Andrea

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