Abbiamo Intervistato il Direttore Editoriale dell’Intellettuale Dissidente

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Mi sono imbattuto in un post su FACEBOOK, che mi ha colpito per contenuto e immagine, così ho scoperto l’Intellettuale Dissidente, e per conoscere meglio questa testata , ho deciso di fare qualche domanda al Direttore Editoriale Gianluca Giansanti,

Gianluca Giansanti

Iniziamo questa intervista con una domanda scomoda

Nel mondo dell’arte quanto conta e soprattutto quanto è possibile essere “Politically correct”?

È difficile, oltre che rischioso, accostare il politicamente corretto al mondo dell’arte. L’arte, in tutte le sue forme, è figlia del costante conflitto interiore fra Eros e Thanatos, di pulsioni ossessive ed espressività appartenenti al mondo dell’inconscio e della sfera intima della persona. È un’eruzione rumorosa e incontrollabile, scaturita dall’inconscio. L’arte deve essere trauma, catarsi, liberazione e non può di certo essere “serena” (si veda Theodor W. Adorno). Tutto ciò si traduce in un concetto semplice: l’arte deve poter comunicare ed essere in grado di ricavarsi violentemente il suo spazio nella memoria e nell’immaginario di persone che sempre più fagocitano immagini e, per farlo, deve essere audace, violenta, d’impatto, scorretta. Si pensi a Cattelan o agli animali in formaldeide di Damien Hirst, alla merda d’artista di Piero Manzoni, alle performance di Marina Abramovic o alla body art di Vito Acconci… ma anche a critiche più “velate”, come il tratto di Egon Schiele, il colore in Vincent Van Gogh e l’utilizzo del nero in Caravaggio, tutte traduzioni di disagi interiori, difficoltà comunicative e tensioni inconsce. Se l’arte deve rappresentare qualcosa, lo fa senza trattenersi, scandalizzando e deviando dalle censure, talvolta indignando certo, ma senza mai attenersi ai costrutti della morale, dell’etica, e senza curarsi di ciò che la società ritiene più giusto. Dove c’è politically correct, non c’è arte.

Quale dovrebbe essere il ruolo di una testata d’arte nel campo della comunicazione di settore?

Il ruolo delle testate d’arte di settore deve essere puramente divulgativo: stiamo assistendo ad un imbarbarimento culturale e ad un appiattimento generale, nello specifico è sempre più difficile trovare amanti dell’arte e studiosi del settore e l’ambiente viene visto con superficialità (colpa anche della poca attenzione che le amministrazioni e i governi danno alla cultura, presa come ultima ruota del carro). Troppe poche proposte, bandi confusi e fondi inesistenti complicano la questione. In questo clima, le testate che si occupano d’arte svolgono un ruolo delicato: quello di mantenere vivo l’interesse e di divulgare iniziative che possano avvicinare più persone possibili a questo mondo. A tal proposito viene in soccorso internet, uno strumento sconfinato e gratuito. Non tutti, infatti, dispongono dei mezzi per poter andare al museo o nelle gallerie d’arte, ma sempre più persone utilizzano la rete, un incredibile autostrada composta da uno sconfinato numero di informazioni, di connessioni e condivisioni. Tornando però al concetto prima esposto – all’appiattimento culturale generale: abbiamo una grande mole di dati, il sapere è accessibile a tutti, ma spesso non si sa come utilizzare correttamente questi strumenti.

Quale ruolo ha oggi internet nella divulgazione dell’arte?

Si possono ricavare vantaggi infiniti dagli spazi virtuali: la condivisione è istantanea, c’è più visibilità, il networking è facilitato e la probabilità di emergere è molto più alta oggi rispetto a cinquant’anni fa.

Cosa ritieni si dovrebbe fare per avvicinare l’arte al grande pubblico?

Non è detto che l’arte debba obbligatoriamente raggiungere il grande pubblico. Chiunque cerchi di avvicinarsi al pericoloso mondo della massa, finisce col ricadere nella riproduzione ossessiva di quella grande catena di montaggio che è il consumismo. La quantità non può vincere la qualità. Tale tema venne anticipato dalla Pop Art e sembra tornare costantemente nelle produzioni seriali e in quegli artisti che non hanno più diretto contatto con le loro opere d’arte, ma è un concetto che si scontra ferocemente con un principio non scritto di questo mondo: l’unicità e la singolarità di ciò che si vede. Nonostante tutti vogliano possedere la Gioconda, nessuno può averla al di fuori del Louvre, altrimenti non sarebbe “La Gioconda”, ma una mera ed inutile copia e, come direbbe Magritte, “Ceci n’est pas une pipe” (La Trashion des images, 1928-29).

Le gallerie tradizionali hanno ancora motivo di esistere?

Fin quando ci sarà mercato e ci saranno compratori, esisteranno luoghi dove poter acquistare e dunque avrà senso parlare di gallerie anche nel senso più tradizionale del termine. Faccio un esempio che mi tocca da vicino. Ho avuto modo di sperimentare e testare in prima persona il mercato dell’arte (seppur con tutte le difficoltà dovute dal Covid-19), con l’apertura a Frascati della galleria Agarte – Fucina delle Arti, progetto nato concettualmente un anno fa e avviato fisicamente nell’immediato post lockdown.

Oltre a poter esser considerata una delle gallerie d’arte più giovani d’Italia e d’Europa – vista l’età mia e di mio fratello Alessandro (27 e 25 anni) – accettiamo di buon grado la sfida data dalle difficoltà in cui versa il mercato dell’arte in questo preciso momento storico, partendo con un modello di galleria tradizionale ma con il presupposto di volerlo svecchiare incorporando nuove tecnologie a supporto di una galleria più moderna e dinamica. Purtroppo, non siamo ancora pronti per un modello di esposizione digitale, questo periodo post lockdown ne è la prova: molte gallerie e musei hanno preferito rimandare le mostre piuttosto che digitalizzarle vista la scarsa risposta da parte del pubblico. Osservare e sperimentare dal vivo ha ovviamente tutto un altro sapore.

Esistono ancora i “mercanti d’arte”?

Finché esisterà merce e mercato (nel senso esteso del termine), esisteranno mercanti e compratori. Il mercante, ovviamente, è ben diverso dalla figura del gallerista: ben più “abile” di quest’ultimi in quanto il solo scopo è di rendere appetibile un prodotto per poterlo vendere ed ottenere un profitto.

Quanto sono credibili i curatori?

C’è da chiedersi, è forse credibile un direttore d’orchestra? O ancora meglio, può forse suonare un’orchestra senza direttore? Logicamente il ruolo di chi dirige è assicurarsi che l’intera composizione venga riprodotta correttamente nei minimi dettagli, e quindi si deve aver fiducia nel suo ruolo, e comprendere che senza una direzione non si va da nessuna parte; l’anarchia non è mai una scelta saggia. Dunque, il curatore ha un ruolo sicuramente importante; certo l’arte potrebbe sopravvivere senza, come senza gallerie o musei del resto, ma ne uscirebbe provata e sicuramente diversa da quella che conosciamo oggi.

Perché il nome de L’Intellettuale Dissidente?

Una domanda esistenziale che, a quasi dieci anni dalla fondazione del progetto, non viene più posta così di frequente. Il nome della nostra rivista può risultare altisonante o pretenzioso; è un nome sulla quale si potrebbero raccontare un’infinità di aneddoti. Ad esempio, chi ci segue avrà letto svariate declinazioni del nostro nome: da Intellettuale Decedente, ultimamente molto in voga e che mi spinge sempre sull’orlo del colpo apoplettico, a Intellettuale Deprimente o al meno fantasioso Consenziente. Ecco, perché scegliere un nome simile? È presto detto: si voleva ribadire che altro abbiamo da offrire rispetto al giornalismo odierno. Del resto, sarebbe stato troppo facile chiamarsi in altro modo; con un nome che facesse riferimento a un finto giovanilismo o strizzasse l’occhio a facili anglicismi. Non volevamo un nome caldo, semplice da pronunciare e che non comunicasse il minimo senso d’approfondimento o scomodità. L’Intellettuale Dissidente è un nome che comunica un impagabile conflitto: spinoso, pieno di doppie e consonanti. Più o meno vale quanto detto sopra su arte e politicamente corretto: il successo di questa rivista risiede nella forza d’impatto, nella voglia di sfidare il monopolio dell’informazione di massa, nella sua schiettezza e nel suo essere senza veli. Per questo non potevamo trovare nome migliore de L’Intellettuale Dissidente.

Un aneddoto che ricordo con piacere e uno che ricordo col mal di pancia.

Dalle riunioni fiume in redazione, alle settimane e settimane di lavoro notturno; dagli attacchi ricevuti nel corso degli anni ad una panchina gremita di ragazzini che leggono ad alta voce un nostro articolo. Avrei un’infinità di aneddoti da raccontare, ma preferisco concentrarmi su un aspetto che amo particolarmente della rivista che da anni dirigo assieme a Sebastiano: la possibilità d’identificarsi e immedesimarsi con – e nel – L’Intellettuale Dissidente. Qui forse mi sto facendo prendere da un eccessivo idealismo, ma per me possiamo personificare L’Intellettuale Dissidente in tutti coloro che collaborano attivamente col nostro progetto: tutti i suoi redattori, lettori e sostenitori, in effetti, possono riconoscersi nel nostro lavoro proprio perché vogliono emanciparsi da un’informazione sterile, che ha tradito le sue promesse mentendo spudoratamente alle persone che aveva giurato d’informare. Alla fine, credo che il successo della nostra rivista derivi in parte anche da questo, dalla facilità con la quale il lettore riesce ad immedesimarsi nel progetto, ad identificarsi con lo stile scanzonato e strapaesano. Funziona perché chi ha bisogno di un’alternativa, chi non sopporta il peso del politicamente corretto e ha bisogno di provocatori e sovversivi trova uno sfogo nelle nostre pagine, diventando egli stesso un intellettuale dissidente. Questo, inevitabilmente, rende L’ID molto più che una semplice rivista. Questa forte immedesimazione spinge naturalmente i nostri lettori a riunirsi, a incontrarsi e a cercare un contatto costante con i membri della redazione trasformando il giornale in una comunità compatta e omogenea di lettori, capace di partecipare attivamente agli sviluppi del progetto e di finanziare da sé la propria libertà di stampa.

Grazie Gianluca per la piacevolissima chiacchierata,

Alessio Musella

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