Conosciamo meglio Gianluca Marziani Critico e Curatore d’arte.

Gianluca Marziani
Gianluca Marziani

Classe 1970, Gianluca Marziani critico e curatore che si occupa di arti visive.

Molti sono gli incarichi istituzionali e non che ha ricoperto nel mondo dell’arte.

Potremmo dilungarci molto nel ricordare passo per passo la sua carriera, per questo motivo preferiamo che sia lui a raccontarsi attraverso le risposte alle nostre domande.

Il tuo primo contatto con l’arte? 

FIn dai tempi del liceo andavo per gallerie private e musei, dividendo i pomeriggi tra le attività sportive e la mia passione solitaria per l’arte contemporanea.

Ho fatto Giurisprudenza per motivazioni familiari ma la mia vita ha spostato il baricentro vitale verso i mestieri culturali.

Una scelta di cui non mi sono mai pentito, neanche nei momenti peggiori.

E poi la mia lunga e ricca carriera lo dimostra: al posto di un avvocato ricco e poco motivato ho incarnato un fuoco di passione ininterrotta per il mondo parallelo degli artisti.

E’ un posto davvero fantastico il pianeta su cui vivono gli artisti visivi (qui gli avvocati possono essere al massimo collezionisti).

Che formazione hai avuto? 

Un processo da autodidatta che frequentava artisti, critici, galleristi e collezionisti fin dai tempi adolescenziali.

Questo mi ha permesso di formarmi con letture molteplici, evitando il singolo punto di vista professorale, evitando dogmatismi o approcci che esulavano dalle mie preferenze in termini estetici e concettuali.

Ho sempre cercato un quadro di analisi allargato attraverso filosofie che aderissero al mio pensiero iconografico.

E poi ho visto una quantità incalcolabile di mostre, studi e opere, sempre con il pensiero che l’arte visiva fosse in costante dialogo col cinema, la musica, la letteratura e le altre arti in un sinestesia opportuna ed eccitante.

Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione? 

La volta in cui ho fatto una grande festa decidendo, davanti a 500 amici, che non sarei mai stato un avvocato ma che, come si sarebbe rivelato in seguito, gli avvocati li avrei chiamati per la gestione delle mie società in ambito culturale.

Come scegli i progetti o gli artisti da seguire? 

Faccio questo lavoro da oltre trent’anni e i metodi si sono plasmati a seconda dei ruoli, dei momenti e delle specificità.

La cosa per me sistemica è scoprire artisti inediti o quasi attraverso un processo di scouting continuo. In parallelo mi è sempre piaciuto riscoprire nomi sottovalutati, partecipare a rilanci di autori storici che meritano nuovi focus.

E poi mi interessa, ovviamente, sostenere la carriera degli artisti con cui sono cresciuto, degli artisti che ad un certo punto incrociano la mia vita con la loro, fino al privilegio di curare mostre di grandi artisti museali che rappresentano l’eccellenza nella ricerca linguistica.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso? 

Le tante mostre giovanili che facevo nei luoghi più impensabili: siamo negli anni Novanta ed era il momento in cui le nuove tecnologie iniziavano a cambiare i codici estetici, quindi anche i luoghi diventavano più flessibili e la contaminazione sembrava qualcosa di utile e sensato.

Ricordi di cose che non oggi non farei ma che in quel momento erano energie formidabili in movimento.

Se potessi incontrare un artista del passato, chi e cosa gli chiederesti? 

Chiederei a Marcel Duchamp quali oggetti userebbe oggi se il Dadaismo rinascesse nel ventunesimo secolo.

Non esiste artista più influente di Duchamp sulle generazioni che sperimentano oltre i codici della pittura, motivo per cui vorrei capire cosa ne pensa di una tensione concettuale che tocca punte di estrema qualità ma che spesso sfocia nel giochino copiativo e spesso ridicolo.

Quanto conta la comunicazione? 

Non è solo fondamentale, ormai si fonde con le dinamiche dell’informazione sui nuovi media, talvolta mescola i suoi codici a quelli del progetto, essendo ormai endogena al meccanismo creativo, distributivo, produttivo e commerciale. 

Oggi consiglieresti l’acquisto di un emergente come investimento? 

I nomi emergenti a basso prezzo sono sempre il miglior investimento in termini potenziali. In realtà bisognerebbe comprarne diversi ogni anno, sapendo che basta uno che esplode nei prezzi per rendere l’investimento una piccola o media fortuna.

A parte il denaro esiste poi la soddisfazione di vedere premiata la scommessa, aver puntato su quel nome vincente.

Non dimentichiamo mai che l’arte è anche un gioco e il collezionismo un gioco crudele e bellissimo. 

Che differenza c’è nella percezione dell’arte tra Italia e estero? 

Questione di approccio e metodo. Il pubblico italiano è facilmente influenzabile da fattori esogeni mentre il pubblico anglosassone, per citare uno dei migliori, affronta l’opera con approccio più autonomo e critico.

Però il nostro Paese è anche pieno di strane sorprese: ad esempio, le collezioni più contaminate e intelligenti le ho viste proprio in Italia, nei luoghi più insospettabili.

Cos’è per te l’arte? 

SIntesi simbolica di un bisogno eterno dell’umano davanti all’assurdità dell’esistenza.

Una forma di sacralità laica e rinnovabile.

Un accesso privilegiato alle angolazioni nascoste del mondo 

Per proporre arte bisogna averla studiata? 

Bisogna sentirla, nel senso profondo del termine.

Con una giusta dose di conoscenza che non significa affrontare studi pedanti e nozionistici.

Conoscere significa sapersi muovere, avere le chiavi d’accesso alla filiera, capire le differenze e seguire gli odori e i sapori che si amano.

Cosa chiedi ad un gallerista? 

Di avere coraggio nelle scelte, pazienza nei risultati, perserveranza nella proposta, fantasia nei metodi. 

Cosa pensi dell’editoria di settore? 

In evidente crisi sistemica, come l’intero comparto del mondo cartaceo. In compenso, vedo interessanti progetti web che affrontano l’arte contemporanea con l’approccio giusto.

Faccio l’esempio recente di ARTUU, una piattaforma egregiamente diretta da Alessandro Riva, un bel collettivo di voci polifoniche che parla ogni giorno di tante cose con il giusto linguaggio e le giuste indicazioni.

Che differenza c’è tra curatore e critico d’arte? 

Il critico d’arte gioca sul piano statico, affrontando l’analisi dell’opera con attitudine teorica e una relazione monogamica con la mostra.

Il curatore, invece, gioca tutto sul piano dinamico, inserendo le competenze teoriche dentro un sistema manageriale e gestionale del lavoro, aumentando quindi la capienza delle piattaforme su cui operare.

Forse ha poco senso, ormai, fare questo distinguo; semmai farei una divisione tra approccio storicista e approccio contemporaneo, mi sembra questa la vera diramazione su cui ragionare in termini di ruoli e competenze.

Grazie Gianluca per il tempo a noi dedicato

Alessio Musella

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