David LaChapelle a Napoli a cura di Andrea Grieco.

David LaChappelle
David LaChappelle

Una delle serie di foto più eloquenti realizzate da David LaChapelle negli ultimi anni si intitola Deluge e il riferimento all’evento mitologetico, che nelle più disparate culture sta da sempre a sostanziare una contemplazione escatologica della società che l’ha elaborata, negli scatti barocchi dell’artista statunitense si costituiva come una delle riflessioni più lucide e incisive, rispetto alla condizione dell’uomo e della vita occidentale, per di più sviluppata in tempi pre-pandemici.

Ancor più sintomatico e suggestivo, nonché spietato, è il fatto che tale considerazione, effettuata da LaChapelle nel suo inimitabile stile vibrante e pregno di acida ironia, l’abbia espressa spietatamente, senza escludervi il gesto e il prodotto artistico, per cui nelle sue immagini apocalittiche ad essere sommerse erano magniloquenti stanze museali,  e tracimate e devastate dalle acque le opere più iconiche di Murakami, Hirst e Koons, come dire l’intero costrutto espressivo che ha contraddistinto la storia del genere umano.

Più amaro forse non poteva essere LaChapelle, che pure lasciava uno spazio in quelle foto estremamente visionarie per una possibile redenzione, spesso mediata dal languore dei suoi modelli patinati. Pertanto era con una certa trepidazione che si attendeva il successivo guizzo dell’artista e la mostra da poco inaugurata negli spazi della Cappella Palatina, sita all’interno del Maschio Angioino a Napoli sino al 6 marzo 2022, rappresentava un’occasione importante per poter ammirare le prodezze formali e cromatiche a cui LaChapelle non smette di dar vita da quando Andy Warhol gli diede la propria egida.

Ma di quel diluvio che nelle foto capolavoro diveniva personificazione del decadimento postmoderno sembra essere rimasta solo la pioggia battente che ci accompagna per tutto il viaggio verso il capoluogo campano, con il vento sferzante che spazza via un cartellone metallico della mostra spezzandone gli ancoraggi e lanciandocelo sui piedi proprio mentre ci apprestiamo a varcare la soglia d’ingresso.

Segno malamente premonitore della delusione che si prova attraversando l’ambiente decisamente esiguo in cui si articola l’evento, fattore non certo idoneo a rendere giustizia all’opera dell’autore.

Di fatto, le dimensioni piuttosto ridotte delle riproduzioni, non certo sviluppate e stampate su eccellente carta fotografica e, cosa a dir poco scandalosa, affisse prive di supporto con rudimentali chiodi, mortificano la composizione che con cura meticolosa LaChapelle concepisce per ogni singolo scatto; così come pure le accensioni cromatiche che diventano solo fioche reminiscenze dello sfavillio originario per via di un’illuminazione non appropriata a valorizzare gli scatti esposti.

Decisioni d’allestimento dettate dall’artista stesso per sottolineare la fragilità e caducità indotta da questi strani, ultimi tempi, benché da lui ci si sarebbe aspettata una reazione ben diversa, più vitale e provocatoria e non pietistica e piagnucolosa.

Purtroppo non sono solo queste le scelte poco appropriate che contribuiscono ad avvilire l’esperienza in sé.

Non vi è un criterio cronologico che ordini o un presupposto logico che guidi, cosa tanto più scellerata se ci si immedesima in quel pubblico scevro di una pur minima conoscenza del lavoro di LaChapelle, e accostate l’una accanto all’altra si trovano foto distanti tra loro nel tempo, appartenenti a temi, momenti e serie concettualmente agli antipodi, così alimentando confusione e fraintendimento nel fruitore che non riesce, da solo, a discernere un soggetto pubblicitario da un’icona pop piuttosto che un soggetto sacro.

Mostra, nientedimeno, definita site specific nel testo del comunicato stampa; parole ruffiane per indicare due doppi pannelli di negativi dipinti a mano e collocati alla base dell’unica navata in rigoroso stile gotico della Cappella Palatina, per un effetto definitivo piuttosto debole.

Si fa veramente fatica a credere che sia stato l’artista stesso a concepire un tale scialbo apparato; come ammettere che questa volta LaChapelle per le sue foto, che per la loro spettacolarità hanno sempre necessitato di un lavoro simile a quello riservato ad un set cinematografico, di quelli concepiti per pellicole anamorfiche se non stereoscopiche, si sia accontentato di una messinscena pari a quella di una scadente fiction per il piccolo schermo.

Grieco Andrea

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