Simona Cozzupoli: l’Arte della contemplazione

simona cozzupoli
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Simona Cozzupoli, classe 1977, il filo conduttore delle sue opere è proprio la meraviglia, ricercata attraverso un processo compositivo in cui è implicita la decontestualizzazione degli oggetti.

Le sue creazioni nascono dalla contemplazione di idee , di riflessioni che ruotano attorno ai temi dell’infanzia e dell’origine (dell’umanità e delle parole), del gioco, del sacro, dei simboli e degli archetipi, della divinazione, del caso e, sempre, della meraviglia, intesa come “ponte” verso una modalità conoscitiva intuitiva e preconcettuale, potremmo andare avanti per pagine a raccontarvi il Mondo di Simona, ma abbiamo preferito farle qualche domanda , per meglio entrare nel suo universo fantastico :

Il tuo primo incontro con l’arte?

A memoria, il mio primo incontro con l’arte è avvenuto intorno ai 6 anni, a casa dei miei zii paterni. Attratta da un quadro astratto di cui non riuscivo a individuare il soggetto, ho chiesto incuriosita a mio zio: “Cos’è raffigurato in quel quadro?” “Ognuno può vedere ciò che vuole”, mi è stato risposto. Quell’affermazione, inevitabilmente semplificata e inesatta perché rivolta a una bambina, ha colpito profondamente la mia immaginazione, innescando in me una serie di riflessioni che oggi sono in grado di spiegare a parole, ma che ovviamente in quel momento ho solo intuito. Quel giorno ho scoperto, prima di tutto, che non necessariamente l’arte deve riprodurre ciò che si vede, come avviene in un ritratto o in un paesaggio; in secondo luogo, ho capito che il quadro non è creato solo dal pittore che lo dipinge, ma anche dallo spettatore, chiamato talvolta al ruolo attivo di determinarne il soggetto grazie alla sua libera interpretazione; di conseguenza, ho intuito che l’opera d’arte, per sua stessa natura, deve essere pensata per l’esposizione allo sguardo altrui, configurandosi così come una relazione tra artista e pubblico; mi sono accorta, inoltre, che in un’immagine caotica, inizialmente incomprensibile, è possibile vedere ciò che si vuole; ho concluso che, se ognuno di noi può vedere in uno stesso quadro soggetti diversi, allora l’atto della percezione è necessariamente una proiezione.

In quella risposta, insomma, c’era già materiale sufficiente per indirizzarmi verso il fenomeno percettivo della pareidolia, che è la tendenza istintiva dell’essere umano a riconoscere oggetti noti in strutture caotiche come le nuvole, le macchie di umidità sui muri, la corteccia di un albero o, appunto, l’immagine non figurativa di un quadro astratto. Un aspetto interessante, a questo proposito, è che l’illusione pareidolica non riguarda solo l’arte contemporanea (i Surrealisti ne hanno fatto un vero e proprio metodo di lavoro), ma è un fenomeno connaturato all’arte stessa. Già nel Rinascimento Leonardo da Vinci, ad esempio, vedeva nelle nuvole, nelle rocce o nelle macchie casuali, una grande fonte di ispirazione in grado di mettere in moto l’immaginazione. Per questo motivo il pittore raccomandava ai suoi allievi di esercitarsi a riconoscere forme note nel disordine informe.
Da quel che ricordo, quindi, il mio primo incontro con la dimensione artistica è avvenuto grazie alla visione di un quadro astratto e a quella frase, solo apparentemente semplice, ascoltata da bambina, nella quale c’erano già, allo stato embrionale, tutte le premesse per farmi appassionare, da adulta, all’arte e all’estetica, cioè a quel ramo della filosofia che si occupa della conoscenza sensibile.

Quando hai deciso che sarebbe diventata una professione?

In un certo senso ne ho sempre avuto il sentore sin da adolescente, come se fossi predestinata a dedicarmi interamente all’arte. Ma se proprio devo pensare a una data, mi viene in mente il 2011, quando ho creato “Occhio magico”, un assemblaggio di due tele della stessa dimensione, incollate tra loro schiena a schiena, attraversate al centro da uno spioncino panoramico per porta, che da bambina chiamavo “occhio magico”. Questa espressione, fiabesca ed evocativa, mi ha sempre suggerito l’idea di uno strumento per la divinazione e per l’accesso a un’altra dimensione. L’“occhio magico” permette infatti sia di vedere colui che suona il campanello di casa prima di incontrarlo fisicamente, con una forma, pur minima, di preveggenza, sia di guardare oltre la porta, simbolo del limite tra interno ed esterno (nelle abitazioni) e tra sacro e profano (negli edifici sacri), separazione e insieme comunicazione tra i due mondi. Attraverso il tunnel dimensionale dello spioncino, accediamo, oltre la tela-porta, ad una visione più ampia, panoramica appunto.
L’opera è sospesa a un filo e, ruotando liberamente, mostra entrambi i lati: sia quello da cui si guarda oltre, sia quello posto al di là della soglia. Confondendoli di continuo, afferma che il potere di rendere sacro il profano è tutto nello sguardo. In una dimensione originaria e sacra dell’esistenza, che accomuna l’uomo primitivo al bambino, non esiste separazione tra arte e vita: l’arte incide sulla realtà e la natura è da osservare e ascoltare come il responso di un oracolo. Ricordo che con la creazione di quell’opera ho capito qualcosa di molto importante, che poi non ho più dimenticato: l’arte coincide con la realtà vista attraverso un occhio magico.
In quel momento ho avuto la conferma che quello che mi interessava più di ogni altra cosa nella vita era trasformare la mia naturale attitudine artistica in una professione.

Come scegli i soggetti nelle tue opere?

Ti rispondo partendo da una frase dell’artista e regista surrealista Jan Svankmajer:

Francamente, non mi interessa l’arte come specifica attività umana. Ci sono attività più interessanti dell’arte. A me interessa l’immaginazione.

Scelgo i soggetti delle mie opere in base alla capacità che hanno di attivare la mia immaginazione, facoltà a mio avviso tra le più importanti nell’essere umano, insieme alla fantasia e alla creatività. Come precisa Bruno Munari, l’immaginazione permette di vedere ciò che le altre due facoltà si limitano a pensare. A volte mi capita di scegliere un soggetto partendo dalla lettura di un libro, altre volte dalla vista di un oggetto. Talvolta l’ispirazione può nascermi dal ricordo di un sogno, da una parola sentita per caso, dalla scoperta di un’etimologia, da un’illusione pareidolica o dalla connessione improvvisa e inaspettata tra due elementi noti.
Ti faccio qualche esempio.
Dalle letture di “Mnemotecniche e rebus” di Umberto Eco e di “Simboli della Scienza sacra” di René Guénon è nata la bacheca intitolata “Mnemotecnica: Giano bifronte”.

Dal primo libro è derivata l’idea di realizzare una mnemotecnica, cioè un diorama finalizzato a facilitare la naturale capacità umana di memorizzazione sfruttando la memoria visiva. Mi sono lasciata ispirare, in particolare, dalla “tecnica del palazzo della memoria” descritta da Eco. Ecco in cosa consiste questo antico metodo: bisogna prima immaginare una qualsiasi struttura spaziale divisibile in settori diversi, come ad esempio un palazzo con piani e stanze; poi si procede a collocare mentalmente in ciascun luogo alcune figure facili da memorizzare, che corrispondano ai concetti che si vogliono ricordare; infine, ripercorrendo virtualmente i diversi vani del palazzo, si potranno incontrare, con gli occhi della memoria, i vari oggetti collocati in precedenza e, di conseguenza, riportare alla mente i concetti ad essi associati.
Nella mia bacheca ho disposto sopra la testa in porcellana di una bambola, usata come simbolo della memoria, un palazzo-cassettiera, con cassetti al posto delle finestre e ante al posto delle porte. Nei “cassetti della memoria” e nelle ante ci sono alcuni oggetti-concetti relativi al simbolismo di Giano. Ho tratto tutte le informazioni su questa interessantissima figura mitologica dal saggio prima citato di Guénon, che analizza approfonditamente tutti i simboli che legano Giano bifronte alle due porte solstiziali e ai due San Giovanni.
Altre volte, come ti dicevo, è la semplice visione di uno o più oggetti, o del loro casuale accostamento, a sedurre la mia immaginazione. I mercatini dell’usato rappresentano lo scenario ideale per creare connessioni tra immagini disparate e generare i soggetti di nuove opere. Un qualunque oggetto di legno dalla forma interessante può diventare, ad esempio, il protagonista di una mia “natura morta contemplativa”, soprattutto se mi appare misterioso perché ne ignoro la funzione.
Per farti ancora un esempio, mentre giravo in un mercatino dell’usato alla ricerca di ispirazioni, mi sono imbattuta in una vecchia grattugia di legno. Osservandola, ho subito intuito che, con poche e semplici modifiche, avrei potuto trasformarla in una teca, perfetta per racchiudere una statuina della Madonna, trovata poco prima nello stesso luogo. Una volta disposta la grattugia in verticale, ho scoperto con mia grande meraviglia che il manico si è trasformato nella cimasa della teca, rendendola simile a un vero e proprio reliquiario adatto a contenente la statuina sacra.

Quanto conta la comunicazione oggi?

Moltissimo. Quando sento parlare di “strategie di comunicazione”, però, provo un sottile senso di disagio per il semplice fatto che, non essendo esperta del settore, avverto subito la spiacevole sensazione di sentirmi esclusa da un mondo del quale, per lo più, ignoro le regole. Con il facile accesso ai social network, l’artista ha oggi un’opportunità enorme e gratuita di comunicare, utilizzando internet come una “vetrina” del suo lavoro. Ma questo non è sufficiente a rendere efficace la sua comunicazione, perché la società attuale è caratterizzata da un eccesso di comunicazione a livello globale. Tutti comunicano, aggiungendo una goccia nell’oceano di informazioni, tra le quali risulta poi sempre più difficile far emergere le proprie. Leggo spesso che l’artista dovrebbe essere, al contempo, anche promotore di se stesso. Non sono in disaccordo con questa affermazione, ma credo tuttavia molto di più in una collaborazione tra l’artista e l’esperto di comunicazione, per almeno due ragioni: la prima è che per comunicare in maniera davvero efficace ci vogliono ovviamente conoscenze specifiche che non sempre l’artista ha o è in grado di acquisire e la seconda è che per comunicare ci vuole davvero tanto tempo, tutto tempo sottratto, paradossalmente, all’ideazione e alla creazione delle opere che si vogliono far conoscere tramite la comunicazione!
Per quanto riguarda gli artisti della generazione nata con internet (alla quale io non appartengo), il discorso è diverso: loro non hanno alcuna difficoltà non solo a pensare alla comunicazione digitale della propria arte, ma addirittura a concepirla appositamente in modo che sia facilmente comunicabile. Un artista attento alla comunicazione oggi potrebbe addirittura decidere scientemente di creare opere “instagrammabili”, privilegiando, ad esempio, il formato quadrato o la gamma cromatica di tendenza su Instagram. In questo modo arte e comunicazione diventano un tutt’uno, ma l’arte, così, perde qualcosa: la sua autonomia.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso?

Due anni fa stavo allestendo una mia mostra a Milano: sballavo le opere e mi facevo aiutare dalla responsabile a sistemarle su un ripiano prima di appenderle. Quando dall’imballo è emersa una ventagliera dorata contenente l’immagine di una Madonna piangente, la ragazza è rimasta sconvolta e mi ha impedito di esporla, temendo che potesse risultare offensiva. Nonostante le avessi spiegato che si trattava di un rebus oggettuale, la cui soluzione verbale faceva riferimento all’etimologia del nome di Maria, era rimasta erroneamente convinta che l’opera nascondesse un messaggio criptato (che lei non era in grado di decifrare) offensivo nei confronti del mondo cattolico. Temeva il rischio di uno scandalo e credo che fosse intimamente convinta che io la stessi ingannando. Ma questo, naturalmente, non era vero.
La soluzione del rebus, infatti, allude all’etimologia ebraica di “Maria”, che deriva da “mar” (“amaro”) e “yam” (“mare”).
Al centro della ventagliera, sullo sfondo di un cielo azzurro con nuvole bianche, c’è la fotografia della statua della Madonna di Fatima, che pianse miracolosamente a New Orleans nel 1972. Il suo pianto crea, letteralmente, un mare di lacrime, rappresentato in basso dalle onde di cartoncino arrotolate a spirale.
Intorno a lei sono sospesi alcuni oggetti e lettere fluttuanti: un atlante, un libro di poesia, quattro altari e, sulla testa, una rana.
La disposizione degli oggetti, a destra e a sinistra della Vergine, è a chiasmo: all’atlante in basso a sinistra corrisponde il libro di poesia in alto a destra e agli altari in alto a sinistra corrispondono quelli in basso a destra.
La forma della cornice, inoltre, ricorda una conchiglia, spesso associata, nell’iconografia cristiana, all’immagine della Madonna. La conchiglia, del resto, è legata qui anche alle onde del mare, il quale, a sua volta, è contenuto nell’etimologia, prima citata, del nome di Maria.
Al di fuori del chiasmo, la rana (che nell’iconografia cristiana simboleggia il demonio) è collocata in posizione isolata e centrale, sopra la corona della Madonna piangente.
Tutte queste considerazioni, tuttavia, non dovrebbero avere alcuna rilevanza dal momento che, in un rebus, il piano visivo è dissociato dalla soluzione verbale. Nei rebus, infatti, le immagini (in questo caso gli oggetti) sono solo conseguenze fortuite in quanto la loro scelta avviene sulla base del nome corrispondente, allo scopo di creare una frase o un’espressione di senso compiuto.
Tuttavia, la tentazione di trovare a posteriori dei nessi logici tra gli oggetti casuali raggruppati in uno stesso spazio rimane irresistibile…
Ci si potrebbe domandare, ad esempio, se gli altari siano da mettere in relazione con la Madonna, se ci sia qualche significato simbolico nella disposizione chiastica tra questi e i libri e se la rana-demonio, posta in posizione simbolicamente dominante, rappresenti la causa del pianto della Madonna.
In altre parole: non è forse una “coincidenza significativa” il fatto che, volendo creare un rebus con una determinata soluzione, sia riuscita a trovare degli oggetti che risultano in relazione sia con la soluzione sia tra di loro, sia sul piano visivo sia su quello del significato?
Inutile precisare che tutte queste mie considerazioni, il giorno dell’allestimento della mostra di due anni fa, sono state totalmente ignorate…
Inizialmente, e per un certo periodo successivo all’episodio, mi sono sentita profondamente delusa e offesa da quella censura inaspettata e immotivata, fondata oltretutto su un fraintendimento, ma oggi ricordo e racconto quell’aneddoto con il sorriso.
Invito chi è arrivato a leggere l’intervista fino a qui a provare a risolvere il rebus in questione, comunicandomi la soluzione (o i tentativi fatti) ai miei contatti!

Grazie per il temp che ci hai dedicato Simona

Alessio Musella

Intervista in collaborazione con Frattura Scomposta Contemporary Art Magazine

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