Solenoide di Mircea Cărtărescu a cura di Andrea Grieco.

Mircea Cărtărescu
Mircea Cărtărescu

Fa una certa impressione la mole con cui si presenta sugli scaffali l’ultimo libro di Mircea Cărtărescu, edito in Italia in una veste grafica davvero congeniale e in virtuosa traduzione per i tipi del Saggiatore, Solenoide; poco meno di mille, fitte pagine che gli conferiscono l’aspetto di un oggetto compatto, maestoso che da solo basta ad attribuirgli un’aurea austera, un alone insieme seducente e inquietante, praticamente magnetico.

E non potrebbe essere altrimenti, che come suggerisce l’evocativa scelta del titolo da parte di colui che viene considerato il letterato più rilevante della scena Romena, sembra proprio un impalpabile e irresistibile fluido energetico a farsi catalizzatore di questo susseguirsi di situazioni che sfuggono ad ogni tentativo di ordine e domesticazione.

Non che manchi un fulcro nevralgico, una voce narrante che abbia le veci protagonistiche, ma la ridda di personaggi e creature, di circostanze e avvenimenti, fantasie, fantasmi, ricordi e memorie, sogni e ansie che si susseguono è tale che la lettura di tale capolavoro assoluto è congenere soltanto a chi è disposto all’abbandono completo, al fruitore che non ha remore a lasciare ogni zavorra affabulatoria per lasciarsi trasportare, a volte strattonare e finanche sprofondare, dal dispositivo misterico concepito da Cărtărescu.

Ascrivibile al nervo dei romanzieri fondamentali, affiancabile senza errore di smentita a Kafka, Beckett, Celine e Bernard, ai quali tra l’altro lo accomuna l’audacia nell’inoltrarsi nei più reconditi, sibillini e turpi anditi dell’esistenza,

Cărtărescu inizia a tessere, proprio come fosse il filamento conduttore di una bobina, il suo romanzo, in maniera dapprima corriva, come fosse una sorta di biografia in forma di quaderno o di diario stilato da un angustiato docente di romeno, per poi inoltrarsi in una spirale visionaria e immaginifica, un’allucinante accumulo di accadimenti come se le pagine fossero la trasposizione di una condizione medianica, e al lettore non resta scelta che inoltrarsi come in stato ipnagogico nell’inesorabile discesa in quell’abisso vertiginoso con cui Georg Büchner identificava la natura umana.

Una tensione costante tra lirismo e atrocità, spiritualità e nefandezza, sostanzia l’intera narrazione di Solenoide, come si palesa sin dalle prime pagine, in cui l’evocazione dell’infanzia del protagonista, da sempre motivo di per sé struggente, non mette molto a trasformarsi in un orripilante manifestazione di caducità e disfunzione, con quell’ispezione periodica al cuoio capelluto praticata con accanita violenza agli studenti per scovare loro i pidocchi e le lendini, alle soluzioni nauseabonde e miasmatiche usate per debellare i parassiti e le loro uova.

O come quando l’alcova del protagonista diventa sede di levitanti amplessi, umorali e sfiancanti, ma anche il luogo di ectoplasmatiche e agghiaccianti apparizioni, senza che mai vengano definiti con esattezza il punto e il momento esatto in cui si varcano i confini tra la realtà e lo stato onirico, così sancendo la permeabilità tra i due ambiti, confermata, forse involontariamente, dall’intelligente scelta degli art director della casa editrice, che hanno voluto una fustellatura circolare nel bel mezzo della copertina, che tra riproduzioni di labirintiche piante topografiche  della città di Bucarest e suggestive macchie emoglobiniche, sembra aprire un varco che aspira come un buco nero.

Andrea Grieco

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