Antonio Gandossi, il pittore delle favole…

Antonio Gandossi
Antonio Gandossi

Uno stile decisamente personale, semplice e diretto, come quando si parla ai bambini, questo non significa che manchi la tecnica, anzi…

Osservatore del contemporaneo che lo circonda, differenzia le tecniche a seconda del significato che vuole trasmettere ispirato dalle immagini che lo hanno colpito.

Una personalità eclettica la sua che con piacere lasciamo all’artista il piacere di raccontare rispondendo alle nostre domande:

Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione?

Quando ho cominciato a partecipare a mostre “su strada” come via Margutta con i 100 Pittori e con Art Studio Tre in piazza della Repubblica.

Un modo di mettersi in gioco, di mettere a nudo il tuo IO artistico confrontandoti con un’ utenza variegata che non risparmia apprezzamenti e critiche.

Un’ esperienza che mi ha intrigato e coinvolto sempre di più fino a preferire la pittura all’ architettura.

La tua prima opera?

La prima è stata una serie (almeno 30)  di disegni a pastello, incredibilmente dettagliati, su fogli a quadretti quando avevo 6 anni.

    La mia maestra li ha voluti esporre in classe e nel corridoio della scuola elementare Mazzini a Pavia.

    Poi una serie di disegni riproducenti particolari architettonici, eseguiti a china con i famosi pennini Cavallotti, esposti nel Liceo Scientifico Taramelli a Pavia.

    Il primo dipinto a olio è stato RIPOSO 1988 che ritrae una persona anziana, seduta su una sedia impagliata, che sonnecchia dopo aver gustato un po’ di formaggio stagionato e bevuto un bicchiere di vino dal fiasco al suo fianco.

    Per fare arte, bisogna averla studiata?

    Secondo me sì. Intendo: studiare le correnti artistiche, specialmente gli artisti e le loro opere cercando di comprenderne lo spirito artistico, le motivazioni che li hanno spinti a dipingere quei soggetti con quella tecnica.

      Bisogna guardare con curiosità e immagazzinare più informazioni possibili che vanno elaborate e rese proprie quando si dipinge.

      Picasso diceva “ i bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano”.

      Chiaramente ci vuole anche un minimo di talento naturale.

      L’ importante è la creatività (Arthur Koestler diceva che la creatività è l’arte di sommare due a due e ottenere cinque !).

      La tecnica si può apprendere da altri artisti e altre opere d’arte senza bisogno di frequentare per forza Istituti specializzati. Ci sono stati grandi pittori autodidatti come Ligabue e Van Gogh.

      Cosa unisce i tuoi dipinti e la musica?

        La musica è un susseguirsi di note che il musicista mette sul rigo in maniera tale da ottenere una melodia, la sua melodia; i miei quadri sono un susseguirsi di colori che io metto sulla tela in maniera tale da ottenere un’ armonia, la mia armonia.

        Come scegli cosa ritrarre?

        La scelta è del tutto casuale. Può venire alla mente leggendo un libro, vedendo un film, ascoltando musica e via dicendo. Per questo motivo i miei quadri sono sempre differenti e originali. Una volta deciso l’argomento faccio ricerche mirate per “costruire” il quadro aggiungendo o sottraendo particolari in corso d’opera.

        Un commento sul mio modo di fare pittura è stato che i miei quadri sono “da leggere” e che sono “i ricordi della memoria”  nel senso che chiunque trova qualcosa del suo vissuto tra le pennellate.

        Altro fattore importante è il titolo che serve a stimolare l’osservatore a chiedere spiegazioni e innescare poi un dialogo sull’argomento in questione.

          Un aneddoto che ricordi con il sorriso.

          Durante una personale in una chiesa sconsacrata a Ortona, dove avevo portato una trentina di dipinti di vario genere, una signora, dopo aver guardato a lungo ogni quadro, venne vicino a me e mi disse “ Bellissima mostra…ma in quanti siete?”

          Se potessi incontrare un artista del passato, chi e cosa gli chiederesti?

            Visto che è sempre stato la mia musa ispiratrice e visto che mi piace cucinare (sempre arte è !) mi piacerebbe incontrare Van Gogh e chiedergli un suo quadro in cambio di un piatto di tagliatelle al ragù bolognese…un equo scambio!

            Se incontrassi te stesso a 18 anni cosa ti consiglieresti?

            Sono sempre stato un ottimista, ho sempre trovato il lato positivo anche in situazione spiacevoli, ho sempre voluto diventare architetto fin da quando avevo 6 anni, ho sempre voluto realizzare cose uniche che solo io avrei potuto pensare di realizzare…quindi mi consiglierei di continuare a sognare…solo chi sogna può volare.

              Quanto conta la comunicazione ?

                Penso sia fondamentale se si vuole raggiungere più pubblico possibile.

                E’ il mezzo con cui un artista riesce a essere percepito esattamente com’è.

                Che differenza c’è, nella percezione dell’ Arte, tra Italia e Estero?

                  Una bella differenza. In Italia la cultura artistica è minima, la valutazione di un quadro è basato esclusivamente sull’ impressione (Gauguin diceva “prima l’ emozione,  poi la comprensione”) , pochi scendono nel particolare o sono interessati ad un approfondimento con l’artista. In Germania, per esempio, sono più preparati e sono loro che prima di acquistare un’ opera vogliono sapere tutto sull’artista e sulla sua pittura.

                  Che cos’è per te l’arte ?

                    E’ emozione, è evasione, è  complicità tra me, la tela e i colori.

                    E’ energia quando cominci un quadro ed è appagamento quando lo finisci come lo avevi pensato.

                    Cosa ti aspetti da un curatore?

                    Dialogo e  sensibilità

                      Cosa ti aspetti da un Gallerista?

                      Dialogo, capacità imprenditoriale, capacità di coinvolgimento, affidabilità, sincerità.

                        Quanto contano per te la luce e i colori?

                        La luce e i colori sono la base dei miei quadri.

                          L’aggettivo che più usano per descrivere le mie opere è “luminoso”.

                          Ho usato anche parti bianco e nero mischiate con parti colorate per mettere l’accento sul messaggio che volevo arrivasse all’ osservatore.

                            Come in PLEASANTVILLE dove il bianco e nero dei libri e delle targhe su cui si leggono luoghi e date serve a drammatizzare il ricordo dei roghi di libri perpetrati per motivi politici o religiosi, il potere che cerca di distruggere la cultura per tiranneggiare il popolo, ma la cultura non si distrugge e come un’ araba fenice rinasce dalle sue ceneri e  ritorna il colore del sapere.

                            Grazie per il tempo a noi dedicato

                              Alessio Musella

                              Pubblicato in collaborazione con James Castelli

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