“Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote.
“(Dino Campana)

Carlo Riva frange, come Medardo Rosso, il limite della finitezza, per lasciar presagire la presenza di un diastema esperienziale, che è immaginario di una realtà mentale e spirituale. L’artista, originario di Sirone, inizia il proprio processo evolutivo, e come individuo e come artista, rifuggendo da subito il realismo. Inizialmente, i soggetti delle opere appartengo alle competenze del dato sensibile, rivisitato in maniera personale; in seguito essi cambiano la condizione conoscitiva e, ovviamente, le fattezze. Il viso che Dino Campana poeta, in quei brevi versi, per Carlo Riva muta nella verità, sospesa tra l’ “apparenza” e la disgregazione della forma umana e della sua essenza, in virtù di un assoluto ritorno all’unità, sia essa intesa nella significanza del “Chaos” originario, sia come alta e “squisita voragine” , in cui vive il delizioso nulla.
La mano di Carlo Riva, come acqua sorgiva o di una naturale fonte battesimale, dilava allora la pietra: l’artista vi goccia un inconscio e altresì uterino volto reale, la cui plasticità seduce l’occhio per frugale eleganza e garbo.