INTERVISTA a ADOLFO DE TURRIS a cura di Maria Marchese

ADOLFO DE TURRIS
ADOLFO DE TURRIS

Perdersi, sin da piccolo, tra forme e colori diventa l’incipit perché Adolfo De Turris coltivi una concezione metafisica della realtà, inconsapevolmente…

Questo approccio rimane latente sinché, in età adulta, lo concerta sulla tela: nascono così queste opere, in cui ogni immagine diventa il riflesso di uno stato emotivo/esistenziale intimo e personale.

Il mito cappeggia prepotente sul palcoscenico a pennello dell’artista; in esso, quel passato arcaico e classico simboleggia “l’Eden” , ossia il rifugio incontaminato, dove i mali sociali vengono annientati.

Adolfo De Turris vi esprime e dirime tutto il dissenso nei confronti di ciò che rappresenta prevaricazione e sopruso. Nasce allora una condizione onirica e amabilmente delirante, avvolta da un universo cromatico cangiante e conturbante.

Il tuo primo contatto con l’arte?

Sin da piccolo le immagini, le forme e i colori avevano su di me un fascino irresistibile.

Ricordo che passavo ore ed ore a sfogliare le riviste che comprava mia madre. Oppure passavo pomeriggi interi ad ammirare il contenuto dell’enciclopedia colorata, che aveva una mia zia.

Comunque il mio primo incontro con l’arte e, nello specifico, con la pittura, avvenne quando avevo circa sei anni.

Ci fu una grande mostra nell’aula magna della scuola elementare che frequentavo: rimasi letteralmente stordito da quella giostra di colori.

Fu allora che presi consapevolezza del fatto che la pittura potesse diventare un qualcosa di importante per me.

Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione?

Vedi, il desiderio che l’arte potesse diventare la mia professione… questo desiderio specifico l’ho inseguito per tutta una vita intera.

Ma avevo una famiglia a cui provvedere e, quindi, ho dovuto dividere le mie giornate tra il normale lavoro e l’arte, naturalmente con grandi sacrifici. Ti racconto un aneddoto: lavoravo in una fabbrica e mi alzavo alle quattro del mattino per poter disegnare.

La tua prima opera?

Difficile ricordare qual è stata la mia prima, vera opera.

Penso sia stata una composizione picassiana perché, all’inizio, amavo molto Picasso e il cubismo.

Per fare arte, bisogna averla studiata?

Francamente non so rispondere a questa domanda.

A volte penso di sì; poi vedo alcuni artisti che hanno fatto cose incredibili pur non avendo frequentato scuole d’arte. Non saprei, non sono sicuro…

Certo lo studio aiuta enormemente! L’importante è non soffocare la poesia e le intuizioni dell’anima con la tecnica.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso ?

Durante la premiazione per “Arte Mondadori” , nel 1986 (dove mi classificai secondo)  :vidi alcuni artisti, miei colleghi, trascinare letteralmente un critico famoso componente della giuria, ciascuno davanti alla propria opera.

Se potessi incontrare un artista del passato , chi e cosa gli chiederesti?

Mi piacerebbe incontrare Raffaello o Michelangelo e supplicarli di entrare a far parte della loro bottega.

Quanto conta la comunicazione ?

Direi che la comunicazione è fondamentale. Mettere in comune determinati contenuti e, poi, condividerli è la linfa vitale di tutta la nostra civiltà e della nostra storia.

Che differenza c’è, nella percezione dell’arte tra Italia e estero?

Premetto che non sono mai stato all’estero, tranne che per qualche breve visita ad un mio parente in Svizzera.

Deduco, da quel che leggo nelle riviste di settore, che fuori dal “Bel Paese” ci sia maggiore attenzione e interesse per l’arte, anche da parte delle istituzioni.

Cos’è per te l’arte?

Ogni qualvolta mi pongono questa domanda vado in panico…È molto difficoltoso, per me, rispondere. Non lo so esattamente.

Vivo l’arte come bellezza e meraviglia; la trovo oltremodo poliedrica e camaleontica. A tratti la percepisco come dolorosa, altre volte come terra di confine e di incanti, folle e misteriosa, di tutti e di nessuno. Mi dispiace ma proprio non so darti una definizione precisa di cosa sia.

Cosa ti aspetti da un curatore ?

Che trasformi uno spazio espositivo in pura magia, in maniera tale che il visitatore percepisca di essere stato protagonista di un viaggio meraviglioso, in quella terra di nessuno di cui si parlava prima.

Cosa chiedi ad un Gallerista ?

Un rapporto collaborativo bello e rispettoso del lavoro di entrambi, limpido, senza furberie e, soprattutto, che ci sia anche amicizia, stima e un pizzico di altruismo, il che non guasta mai.

Le tue opere approdano ad una metafisica, che abbraccia spesso il mito e altre volte scene del passato. Quanto conta il passato e che peso dai alla mitologia?

In realtà la mia stessa natura è metafisica.

Ho sempre, per così dire, sconfinato oltre il dato reale, nel senso che tutto ciò che la vita quotidiana mi poneva davanti lo vivevo come una sorta di riverbero di una verità non percepibile sensorialmente.

Al di là delle cose che incontravo o delle persone con cui mi relazionavo, era sempre presente alla mia coscienza un nebuloso e indefinibile “altro” .

Qualcosa di antico, che mi donava pezzi di felicità e che poi cercavo affannosamente di assemblare in uno spazio e in un tempo tutto mio.

Ne sentivo l’odore insieme a musiche e voci lontane: esso è il mio Eden, il mio tempo dorato.

E da qui nasce il mito, la famosa isola che non c’è.

Le filosofie new age insegnano a vivere il presente. Io vivo nel passato, nei miti del passato, aspettando Godot.

Tutto questo non poteva non riversarsi nella mia pittura.

Nelle tele, sovente, esprimi un forte dissenso nei confronti della realtà… ci parli di questi “no” che vuoi esprimere?

Se ci riferiamo alla realtà che la classe politica, il mainstream e i potenti della terra vogliono imporci, sì: dissento fortemente da tutto ciò che opprime i popoli. La nostra terra poteva esplodere di gioia.

E invece miliardi di persone sono costrette a vivere una vita da schifo.

Il sogno reale: quanto pesa nella tua esistenza questa “realtà altra” e quanto essa rappresenta una via di fuga dal quotidiano.

Come dicevo poc’anzi, ho imparato, nel tempo, a rendere un po’ più  corporea questa realtà altra.

Non che riesca a percepirla nella sua concretezza ma, nella folle corsa dei miei giorni, il mito e il grande sogno hanno assunto un’importanza tale da uguagliare i dati “cattivi” della mia quotidianità… diciamo al 50%.

Naturalmente, davanti ad una tela, il reale cattivo scompare completamente.

Nelle tele imprimi una scelta forza cromatica: essa è frutto di una naturale predisposizione o di un percorso di studi e di ricerca?

Premetto che, ai tempi dell’accademia, qualcosa sulla teoria dei colori l’abbiamo studiata e, naturalmente, nel lavoro di tutti i giorni queste nozioni sono senz’altro utili.

Devo altresì dire che, nella scelta cromatica delle mie opere, prevale abbondantemente una specie di predisposizione atavica. Molti accostamenti cromatici avvengono in maniera quasi automatica.

Intravedo il colore adatto già prima della sua stesura, senza però mai abbandonare i principi della teoria dei colori.

Le tue tele rivelano una forte complessità compositiva. Quando scatta l’imput, hai già in mente la dissertazione figurata oppure essa si rivela via via?

Anche per il discorso compositivo valgono i principi esposti prima: dopo un approfondo studio sulla composizione, effettuato su opere di maestri sia antichi che moderni, una volta acquisiti e interiorizzati quei principi fondamentali diventa più facile, per l’artista, distribuire forme e colori sulla tela.

A tal proposito voglio confidare che posseggo un libro raro, non più in commercio, dal titolo “la geometria segreta dei pittori”.

È un libro che conservo gelosamente.

Pensi che l’osservatore sia in grado da solo di pervenire al senso delle tue opere?

 Se è un sognatore come me sì, senz’altro. Altrimenti occorre dare qualche delucidazione sull’opera.

Per te conta più vendere “a scatola chiusa“  oppure che il tuo pensiero venga compreso?

Poco fa abbiamo parlato dell’importanza della comunicazione…

Penso che diffondere il mio, il tuo, il nostro pensiero e, poi, condividerlo sia molto più importante della pura e semplice vendita. Vendere le proprie opere, però, permette all’artista di vivere del proprio lavoro e poter continuare ad esprimersi.

Se potessi lanciare un messaggio al “sistema arte “ cosa diresti?

Al sistema arte direi e, anzi, lo suggerisco caldamente a tutti gli addetti ai lavori, di non pensare più all’arte unicamente come una forma di investimento e di dare meno importanza al denaro.

Questo ci permette di godere maggiormente le opere, i sogni e le emozioni, che esse possono suscitare.

Maria Marchese

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