Pittore, grafico, sceneggiatore, produttore televisivo, scultore e cineasta, nasce a Pittsburg il 6 agosto 1928.
Impossibile non conoscerlo, la maggior parte di noi lo identifica con le icone della cultura pop: divi del cinema, cibo in scatola, personalità famose.
Vi è chi lo ricorda per le copertine di dischi quali, Velvet Underground, Rolling Stones, Aretha Franklin, altri per i suoi film, a volte, troppo complicati, nei quali mostra il “proibito”, il “perverso”, il”bizzarro”.
Nel 1936 inizia a soffrire di crisi nervose e trascorre gran parte della convalescenza a tagliare figurine o in compagnia di album da colorare.
Nel 1949, subito dopo il diploma al Carnegie Institute of Technology ottiene il primo lavoro come illustratore di un articolo sul numero di settembre della rivista “Glamour”. Inizia così una serie di collaborazioni con “New Yorker”e “Harper’s Bazzar” e diverse agenzie pubblicitarie per calzature e abbigliamento femminile.
Nel 1952, tiene la sua prima personale alla Hugs Gallery di New York, ad oggetto quindici disegni incentrati su racconti di Truman Capote.
Autore de “La filosofia di Andy Warhol da A a B e viceversa”, mette in luce la cultura del lavoro che gli appartiene. Nel corso di un’ intervista rilasciata a Nancy Blake, afferma di considerare quest’ultimo un valore: “È la cosa più importante di tutte. E poi ci impedisce di pensare ad altro. Oggi si dice che bisogna trovare il tempo per divertirsi. Io non sono d’accordo. Vorrei che si lavorasse di più. Sferruzzare di più. Roba del genere”.
Fuori dal comune nell’ equiparare rapporti sessuali e lavoro: “Prima di tutto perché il sesso è obbligatorio. Dunque è un lavoro. E poi è un’attività. Bisogna sprecarci dell’energia. E questo è lavoro”.
Nell’opera sopra citata affronta il discorso “gravidanza”, definendola anacronistica. Spiega Andy:” Se si potesse essere sicuri di nascere con la camicia, allora forse varrebbe la pena. Ma se non si può avere tutto, non vale la pena essere nati. Non è così straordinario. Salvo naturalmente se si diventa belli e ricchi”.
Per quanto concerne le arti figurative, il noto dipinto della Campbell’s Soup non rappresenta una riproduzione a colori del barattolo della zuppa condensata più famosa degli Stati Uniti, bensì una sorta di saggio che mette in risalto i principi base della pop-art.
Warhol strappa un frammento di realtà dal reale, scopo è promuovere a fatto artistico un “qualsiasi” oggetto, sul quale è ora caduto l’occhio creativo.
Non guarda la realtà dall’esterno, non giudica. Si addentra nelle cose, consapevole di trovarsi anche lui un dito puntato contro, quasi essere un colpevole sul banco degli imputati.
Incentra su di sé i complessi e le fissazioni USA, il vero e grande malato, con dimestichezza si addossa il marcio caratterizzante la civiltà e lo trasferisce ad altri.
Attraverso l’obiettività del procedimento riesce a porre a nudo la situazione.
Non offre soluzioni, nel momento in cui lo spettatore si rende conto di quanto accade, il suo compito è giunto a conclusione.
Ciò che lo interessa è il rapporto che intercorre tra arte, artista, mondo e spettatore.

Nelle sue opere si intrecciano pensiero positivo e negativo, questo fa di lui non solo un artista ma anche un pensatore, innovativo nelle tecniche e nell’atteggiamento. Un mondo il suo, che ruota intorno al rapporto tra struttura dell’immagine e iconografia con temi che si riconducono a uno: la morte.
Basta pensare ai quadri di Marylin (precedenti al suicidio), o Liz Taylor. Nella prima l’inchiostro tipografico ne sporca in modo insolito il volto, nel ’62 “Gold Marylin Monroe”, una testa ghigliottinata su uno sfondo simile a un grande campo dorato. La seconda appare invece pallida e lontana, è Andy a chiarire: “Comincia la serie molto tempo fa quando era così malata e ognuno diceva che stava per morire”.

Tela fondamentale è la “Sedia Elettrica”. La scena è ripetuta quindici volte: una camera spoglia e la soluzione finale. Silenzio, morte e assenza di vita, morte di uno, silenzio di molti.
Negli anni Sessanta realizza iconografie tratte da dipinti rinascimentali come Paolo Uccello e Leonardo da Vinci (Monna Lisa) definita “arte colta”.
La Gioconda, in tal modo, da opera d’arte pregiata capibile da pochi, diviene di tutti.
Pier Paolo Pasolini scrive: ”Il messaggio di Warhol per un intellettuale europeo è una unità sclerotica dell’universo, in cui l’unica libertà è quella dell’artista, che, sostanzialmente disprezzandolo, gioca con esso.
La rappresentazione del mondo esclude ogni possibile dialettica. È al tempo stesso, violentemente aggressiva e disperatamente impotente. C’è dunque nella sua perversità di “gioco” crudele, astuta e insolente, una sostanziale e incredibile innocenza”.
Andy Warhol si spegne il 22 febbraio 1987 a New York, ad oggi è considerato figura fondamentale della Pop Art e uno dei più influenti artisti del XX secolo.
L’anno del decesso è anche l’anno dei ritratti di “Beethoven” e dell’esposizione di “Last Supper” a Milano.
Circa il suo lavoro, cacciato spesso di perversione, risponde: “La perversione secondo me è l’omicidio. Le persone che si ammazzano tra loro, questo è perverso. Non mi piace questo genere di cose: fare del male agli altri. Per il resto alla perversione non ci penso mai. Non conosco gente perversa. Lei ne conosce?”
Articolo di Mara Cozzoli , Redattrice Milano più Sociale, testata Partner di www.artandinvestments.com