Marina Abramovic, tutta un’altra storia…

artae misia
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In questi giorni di Biennale a Venezia, molte sono state le immagini diffuse per documentare le opere d’arte presenti, ma altrettante sono state le immagini diffuse per testimoniare una tendenza alla provocazione fine a sé stessa, senza un reale pensiero artistico ad ispirare certe “creazioni”.

Sull’onda di tutto ciò, mi è tornata alla mente un’icona della provocazione (nel senso più elevato del termine), dell’arte performativa come esperienza, grazie alla consapevolezza dell’artisticità del corpo umano e allo studio antropologico (sebbene non professionale) del comportamento umano, in una delle sue performance più famose: Marina Abramović.

Nello specifico, “Rhythm 0” comprendeva settantadue oggetti disposti su un lungo tavolo coperto da una tovaglia bianca, nello Studio Morra di Napoli nel 1974.

Molti erano oggetti deperibili, come generi alimentari e fiori, ma vi erano anche un flauto, un foglio bianco di carta, delle forbici, una forchetta, un libro, una macchina fotografica Polaroid, ed una pistola.

La Abramović era stata esposta come un oggetto.

Inizialmente, il pubblico è stato molto gentile.

Giocavano con lei e una persona le aveva porto una rosa.

Col passare del tempo, i visitatori hanno iniziato a diventare più violenti e ad un certo punto era stata persino incatenata.

Una persona le aveva fatto puntare la pistola verso sé stessa con il dito posato sul grilletto. Più tardi, il pubblico ha afferrato un paio di forbici e le ha tagliato i vestiti.

L’avevano spogliata e scattato delle foto.

La sua opera d’arte ha dimostrato che le persone sono disposte ad arrivare agli estremi delle interazioni umane, se non ci sono conseguenze.

Dalle sue parole: “Non mi interessa morire, ma fino a che punto puoi spingere l’energia del corpo umano: fino a che punto puoi andare e vedere come l’energia è quasi illimitata.”

Artae Misia

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