Intervista a Alice Pasquini, Street Artist.

Alice Pasquini
Alice Pasquini

Di formazione accademica, da Roma ha viaggiato creando su innumerevoli muri, realizzando opere che esplorano le persone e le loro relazioni, rappresentano i sentimenti umani e sono contraddistinte spesso dal disegno di donne forti e indipendenti.

Alice Pasquini è considerata una delle poche esponenti femminili della Street Art di spicco (anche se sarebbe più corretto parlare di Arte Contestuale poiché in questo caso un suo graffito o un suo disegno assumono significato anche grazie al contesto in cui si trovano).

I suoi lavori sono stati recensiti da quotidiani come l’International New York Times, La Vanguardia, Euromaxx.

Tutta la sua arte si nutre di incontri e viaggi.

Passa dalle esplorazioni urbane alle installazioni utilizzando materiali trovati, e le sue opere sono state esposte in gallerie e musei in più di cento città in tutto il mondo.

Conosciamola meglio Alice Pasquini attraverso le risposte alle nostre domande.

l tuo primo contatto con l’arte?

Ho studiato arte ma sapevo fin da piccolissima che avrei fatto la pittrice. Il percorso dei graffiti invece è stato inaspettato.

Stavo già lavorando come illustratrice, ero molto giovane, i graffiti per me erano un modo per reagire all’accademismo, a quello che i miei professori prima al Liceo artistico, poi all’Accademia delle Belle Arti mi dicevano: “L’arte è morta, dimentica la pittura”.

Lo studio mi stava facendo perdere il “romanticismo”. Invece nel dipingere in strada, è stato sempre più stimolante. la fantasia, l’ispirazione nascono da una superficie specifica, da quel luogo specifico perché Oslo non è Mosca, non è Marrakesh, Sydney o Buenos Aires.

Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione?

Ho capito che le cose si facevano serie quando nello stesso anno le mie opere venivano recensite dal New York Times, e la Treccani mi inseriva nell’enciclopedia.
Pensavo che l’arte potesse essere un lavoro, non certo i graffiti.

La mia ricerca sulle strade è stata personale, è come se il valore dell’opera d’arte non fosse l’opera in sé, ma il momento in cui viene creata, e anche il momento dopo, quando io sono andata via e lo spettatore ci si imbatte nel cammino, magari mentre va al lavoro, o sta tornando a casa. In questo senso trovo ci sia “innovazione” in questo tipo di arte.

La tua prima opera?

Mia madre ricorda che a tre anni le ho detto: «Da grande farò la pittrice» mostrandole un quadro con una serie di pulcini.

Nella mia idea di bambina il pittore era un mestiere: nella società di Playmobil o dei Puffi c’erano lo chef, il poliziotto, il pittore…

Quando ho detto ai miei che mi sarei iscritta al liceo artistico gli è preso un colpo.

Per fare arte , bisogna averla studiata?

mentre studiavo l’arte classica a scuola, scoprivo al contempo la street art e la cultura hip hop che arrivavano in Italia in ritardo.

Questa cultura diceva che non occorreva andare in una scuola per imparare a dipingere, suonare, ballare, ma che si poteva fare da sé questo era rivoluzionario: diceva ai giovani che avevano la possibilità di fare ciò che volevano e che più quello che facevano era personale, più sarebbe stato forte.

Per me andare in strada a dipingere è stata una reazione all’accademismo e all’idea di arte come veniva insegnata all’epoca, quando io ero una studentessa.

Dopo i miei primi amori dell’infanzia come Leonardo Da Vinci a diciotto anni ho fatto un giro delle Ville del Palladio e del Veronese: l’idea dell’arte in relazione all’architettura deve avermi molto influenzata. Sicuramente anche il Dadaismo, per il suo concetto di rottura.

Studiare l’arte è un po’ come studiare la musica classica, a un certo punto pensi che quasi tutto è stato fatto.

Per me lì è nata la necessità di trovare una mia strada.

Andavo a scuola e c’era il cavalletto con la modella e già incominciavo a usare gli spray. In fondo entrambe le situazioni hanno formato il mio stile.

Come scegli cosa ritrarre ?

Non ritraggo soggetti specifici, ma sentimenti umani in cui ci si può identificare.

Tutta la mia arte parla di sentimenti umani e di rapporti tra le persone, qualcosa di intimo e di personale rappresentato in uno spazio pubblico.
Sui mi come se fossero finestre sulla vite altrui.

L’idea è quella di umanizzare la città perché da quando hanno smesso di essere progettate dagli artisti sono diventate dei dormitori e basta, perdendo in un certo senso la loro umanità. sono di grande ispirazione.

I background vissuti, “le ferite della città” sono le superfici più interessanti per me, mentre la tela bianca è un po’ il modo in cui l’artista può stare al sicuro nel suo studio.

Io nel mio porto segnali stradali, vecchi giornali, frigoriferi, cose che trovo per strada perché mi piace aggiungere una storia nella storia.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso ?

Ho tantissime avventure da raccontare.

Ho dipinto in così tanti luoghi diversi in situazioni a volte surreali.
Forse gli aneddoti più belli che ho sono legati alle storie delle persone che ho incontrato in giro per il mondo mentre dipingevo e che sono diventate importanti nella mia vita.

Ma anche tutto quello che c’è dietro ogni disegno, come evolve, come continua a cambiare rispetto al rapporto con la città, rendono unico il lavoro in strada.

Persone che nemmeno conosco mi scrivono per dirmi che hanno visto i miei muri in paesi diversi e quello che rappresentano per loro, altre si prendono cura delle mie creazioni per preservarli nel tempo.

A Barcellona, dove le mie opere non esistevano più, alcune persone sono andate ad attaccare le foto dei miei lavori.

Se potessi incontrare un artista del passato , chi e cosa gli chiederesti?
Leonardo, quale è il mistero del sorriso della monna lisa?

Se incontrassi te stesso a 18 anni cosa ti consiglieresti ?
Credi in te stessa.

Se a diciotto anni mi avessero detto che un giorno avrei viaggiato in tutto il mondo, dipingendo più di mille muri, probabilmente non ci avrei creduto. 

Quanto conta la comunicazione ?

Per un artista, la cosa più importante è trovare il proprio segno e la propria voce. 
L’arte in strada non ha bisogno di promotori, comunica da sola al suo pubblico.

Sono state le persone – specie i cittadini delle città nelle quali mi fermavo a dipingere – a farmi capire che quello che stavo facendo non era importante soltanto per me, ma anche per gli altri. 

Cos’è per te l’arte?
L’arte per me è sempre stata un modo di stare al mondo: quando sono triste disegno, quando sono felice disegno. Non saprei vivere la vita, senza questo filtro. 

Cosa ti aspetti da un curatore ?
Che mi stimoli ad andare oltre 

Cosa chiedi ad un Gallerista ?
Fiducia

Quanto contano per te la luce e il colore?

i colori cambiano da luogo a luogo, il muro non è una tela, ha una sua storia, il suo contesto dal quale non riesco a  prescindere la chiamo arte contestuale.

Parto sempre dal colore che trovo sul muro.

Nel caso in cui debba fare un’opera su un muro bianco prendo in considerazione ciò che c’è intorno, i colori sono sempre quelli che vedo intorno a me.

La trovo più stimolante come ricerca.

Di solito sperimento abbastanza sia con i materiali, sia con le tecniche.

È il contesto, il luogo, la forma del muro a ispirarmi

Da cosa trai ispirazione?

Tutte le miei idee prendono vita su un quaderno che porto sempre con me, in giro per il mondo e lì appunto.

La mia arte tratta di sentimenti umani e del rapporto tra le donne, le persone, in un tentativo disperato di parlare di quello che ci lega, piuttosto che di quello che ci divide, rischiando di essere banale.

Però per me la necessità è veramente di poter rappresentare quei sentimenti umani, che poi sono uguali da una parte all’altra del mondo.

Mi affascina il contrasto di una storia privata in uno spazio pubblico, questo è lo scarto. Sono cose molto intime in dimensioni molto grandi.

Mi dà una grande soddisfazione ricevere da parte delle persone degli apprezzamenti perché si identificano o identificano i parenti nei soggetti che dipingo.

Sono una ritrattista del tratto universale del sentimento umano!

Quando ho cominciato, in strada non esisteva un linguaggio di questo tipo.

Attualmente sei in mostra a Palazzo Blu a Pisa nella collettiva “Attitude. Graffiti writing, street art, neo muralismo”.

Cosa pensi della collocazione dell’arte urbana nelle istituzioni museali?

 Più che di graffiti ad un certo punto si è iniziato a parlare di street art ; non più di imbratti brutti e cattivi, ma di un fenomeno interessante.

Ciò ha favorito lo sviluppo di un mercato parallelo a quello istituzionale dell’arte.

Una cosa estremamente innovativa, perché la street art ha aperto le porte a un circuito nuovo fatto di gallerie, aste e festival internazionali.

Negli ultimi anni c’è sicuramente più interesse verso questo tipo di arte per questo, la moda -prima- e qualche multinazionale -dopo-, hanno iniziato ad interessarsene per alcune campagne.

Paradosso e allo stesso tempo il segno del tempo che cambia. 
La storia che si ripete.

Finito il momento di rottura ogni avanguardia viene inglobata nel mercato.

Comunque vada questo movimento ha lasciato un segno..

Pensiamo ad esempio a Basquiat o Keith Haring.

Nonostante possa sembrare una contraddizione se un artista è un artista lo sarà sia all’interno che all’esterno.

Voglio dire che in galleria si possono realizzare opere che in strada non sarebbe possibile realizzare, perché più fragili o intime.

Per quanto mi riguarda lavoro, ad esempio, su supporti diversi, materiali di recupero che riporto dai miei numerosi viaggi e che prendono vita quando ho un’idea per una mostra.

Altro discorso è quando le opere, pensate per la comunità, vengono rubate dalla strada per essere esposte dentro ad un museo.

Strappare le opere dalla strada per realizzare delle mostre non ha senso, perché le opere nascono per quel contesto, per quel luogo, per quella comunità.

Artae Misia

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