Il tempo di un caffè con Andrea Barretta, Critico d’Arte, Curatore,Divulgatore creativo…

Andrea Barretta
Andrea Barretta

Poliedricità è il termine che può meglio descrivere un personaggio dell’arte System come Andrea Barretta, Critico, giornalista, curatore, ma il suo approccio al Mondo dell’arte, lo rende un eccellente comunicatore.

La sua conoscenza dell’universo arte spazia a 360°, e questo gli permette di creare connessioni importanti tra passato presente e futuro, raccontare l’arte , significa in primis viverla, comprenderla e amarla.

Lasciamo volentieri, come sempre, il piacere di raccontarsi ad Andrea attraverso le risposte alle nostre domande:

Il tuo primo contatto con l’arte?

Mi riporti molto indietro nel tempo, a quando negli anni Settanta ero redattore in un giornale e curavo, tra l’altro, una rubrica d’arte e anni dopo una collana editoriale di cataloghi d’arte. Negli anni Ottanta come direttore responsabile di una rivista di cultura ho sempre dato spazio all’arte nazionale e internazionale con le grandi mostre e mie recensioni.

Come vedi il mio iter professionale parte da lontano ed è iniziato da giornalista e da lì poi il passo verso l’essere scrittore e critico d’arte.

Che formazione hai avuto?

Studi umanistici.

Per l’arte pur distinguendo tra le varie tendenze che ormai toccano tutto il possibile e tutti i mezzi espressivi, ho sempre inteso abbandonare archetipi consunti in poetiche ormai da rivedere e andare oltre quel “nulla” che ha traslato il “bello” chissà dove, e presentare l’arte senza restrittive formule del tipo “figurazione”, “astrazione”, “informale”, ma con le ragioni di una realtà nel suo esistere, senza il voler essere “avanguardia” per forza o per timore di molti di non esserne rappresentati, nel fine di una coerenza stilistica contro una mutevolezza che metterebbe in gioco una credibilità raggiunta.

Per questo scrivo con un modello di “critica” che guarda all’arte ma anche alla cultura in genere radicando ogni mio testo nella storia dell’arte con riferimenti e come articolazione di saperi, cercando di alimentare l’emozionarsi in un rapporto umano con gli artisti che sono il vero collante e il motore che permette di poter seguire e apprezzare il mondo dell’arte nel suo continuo movimento.

Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione?

L’arte per passione è sempre stata nel mio privato (compresa quella antica), poi gli studi sulla filosofia, sull’estetica e sui canoni che entrano nella professione di libero professionista come critico d’arte, e le due cose hanno anime diverse anche se allo stesso tempo sono le facce di uno stesso lavoro: la passione per l’arte conduce alla serietà professionale e la professione alla ricerca della bellezza che l’arte dà.

Con uno sguardo ai maestri dell’arte moderna italiana e internazionale, e al grande Novecento che costituisce il terreno su cui svolgere un itinerario che porti nel mondo delle attuali esperienze espressive, come ho scritto nel mio libro “Anni d’arte”.

Come scegli i progetti o gli artisti da seguire?

Dare oggi spazio, volto e corpo alla contemporaneità in continua evoluzione e fermento non è facile, in un’epoca che risente del tutto già fatto.

L’intento, allora, è quello di superare un panorama artistico dove ci sono più attori che spettatori, pur in un’arte contemporanea che interviene con una rivoluzione che ha liberato nuove potenzialità ma manca di aprirsi al largo pubblico divenendo preda di un’arte abusata. Un paradosso che supero con gli artisti in collaborazione per formare un percorso nella creatività artisticamente espressa e in un “alfabeto” dell’arte, per riflettere sul modo e sui modi di significare i metodi di lettura dell’arte stessa.

Interessano, ma non bastano, il “dire” allorquando l’arte viene superata dalla parola, mentre stimola il “fare”, il confronto con il critico d’arte, la ricerca e la capacità di aprire nuove prospettive su tematiche che abbiano un ruolo ben definito.

Un aneddoto che ricordi con il sorriso?

In una mostra d’incisioni, da me curata e presentata, una persona nell’interloquire con me si disse sorpresa dal sapere che erano opere su carta, con il tono di minore importanza.

Con piacere e un sorriso di soddisfazione, invece, in un’altra mostra a mia cura di arte moderna nel vedere alcuni presenti rapiti letteralmente da un quadro di Mauro Reggiani: davanti in modo fisso senza distaccarsene per molto tempo in una sorta di sindrome di Stendhal.

Se potessi incontrare un artista del passato, chi e cosa gli chiederesti?

Scontato dire che vorrei incontrarli tutti e soprattutto stare nei loro laboratori, vederli lavorare: da Leonardo a Caravaggio, Piero della Francesca, Michelangelo, Raffaello, Masaccio, Bellini.

Vivere il Rinascimento con una macchina del tempo che mi consentisse di stare insieme, ma poi ritornare …

Così per il tempo a noi più vicino, dalle avanguardie storiche fino alla Pop Art: i mitici anni Sessanta, che c’ero ma ancora giovane studente.

Girovagare a Roma in Via Margutta, a Milano ai Navigli, e visitare gli studi dei maestri dell’arte moderna, soprattutto coloro che hanno lasciato un forte segno nella storia dell’arte: De Chirico con la Metafisica, Dalì con il Surrealismo e Picasso con il Cubismo.

Comunque, uno su tutti a New York Andy Warhol.

Quanto conta la comunicazione?

Molto. Soprattutto oggi in una globalizzazione sociale che però dovrebbe avvalersi di regole giuste. Innanzitutto non sovraccaricare: la comunicazione ha bisogno di tempo per assimilarne i messaggi.

Poi dedicare cura ai contenuti soprattutto sui social, mentre per ogni personale o collettiva affidarsi al testo di un critico d’arte che ne illustri le potenzialità artistiche.

Non un critico autoreferenziale ma serio e professionale che parli dell’artista e per l’artista senza parole che stanno in un “critichese” che va bene per tutti, non personalizzato, tanto che se dovessimo cambiare il nome dell’artista il testo andrebbe ugualmente bene per qualsiasi altro.

Su questo l’artista dovrebbe stare molto attento e scegliere con fiducia il critico giusto con uno scambio intellettuale quale strumento di indagine sulla contemporaneità.

Oggi consiglieresti l’acquisto di un emergente come investimento?

Sicuramente sì.

Qui sta il senso della ricerca in modo proprio ma soprattutto aiutati da un gallerista che consiglia e di cui fidarsi.

Una galleria d’arte è il luogo principe da frequentare ed è il cenacolo in cui l’artista deve rivolgersi per un percorso professionale, lasciando stare sagre di paese e tutto quanto non porti a un progetto che il gallerista stesso consigli come investimento.

Poi dico sempre agli artisti – non sempre ascoltato – fate una personale in meno ma un catalogo in più: è quello che resta e che serve come biglietto da visita: con un buon testo critico e ben realizzato. Insomma, investire anche su sé stessi.

Per i collezionisti che acquistano, invece, le motivazioni sono diverse: per l’opera in sé che piace, per ragioni culturali o anche di natura economica, per investire nella capacità, insieme al gallerista, di individuare artisti che potranno avere un valore in salita nel tempo.

Il 2022 è stato l’anno del ritorno alla normalità per il mercato dell’arte, con il ripristino delle fiere in presenza e lo svolgimento di eventi espositivi importanti anche in palazzi istituzionali.

Una ripartenza nel segno della resilienza dopo la pandemia che ha portato a un incremento alle vendite via internet, un modo di operare che ormai affianca la presenza in aste che in verità già si erano avvicinate a una esperienza on line, mentre le gallerie in due anni di chiusura sono andate ai ripari dotandosi di piattaforme digitali e di “viewing room”, ossia sale virtuali che vanno a ricreare ambienti esistenti o inediti per esporre opere d’arte. Insomma, il mercato dell’arte è ormai inscindibile da internet: la pandemia ha dato il via a delle nuove abitudini, sia per venditori che per compratori, che sono destinate a rimanere in questo passaggio al digitale che consente a una nuova rete di collezionisti di emergere da più parti nel mondo, là dove la galleria non ha sede e non è solita vendere. 

Che differenza c’è, nella percezione dell’arte tra Italia ed estero?

Purtroppo molti sono esterofili e questo è un danno per tutti.

Un nome straniero attira anche se presenta cose inutili e spesso brutte, come ho scritto nel mio libro “L’arte, la bellezza e il suo contrario”, nel provare a sbrogliare l’appiattimento rinunciatario di fronte all’arte togata incapace della rinascita, bensì nell’interrogare la bellezza e dare finalmente inizio a un’arte che non sia anti-arte.

Perché in Italia ci sono tanti artisti sinceri che producono arte vera: ne incontro molti ed è sempre un piacere percepire la loro passione.

Andrea Barretta
Andrea Barretta

Una indicazione quindi è già qui ma vorrei aggiungere che le grandi fiere nazionali e internazionali sono sì un motore di proposte pur in un mercato incerto, soprattutto nel contemporaneo, e praticamente stazionario in tutti i generi. 

C’è, però, una bellezza che nessuno può permettersi di toglierci, e che tutti possono concedersi, perché è gratuita e tutto azzera nel capirne la ricchezza: è quella umile che riverbera e trasfigura.

E toccherà ai giovani il compito di rompere il cerchio e decidere se continuare con le sperimentazioni d’oltre oceano o rientrare nell’idea storicizzata – o nell’ideale? – da aggiornare nel far prevalere la propria personalità oltre impedimenti creativi che riportano a primitive manovre dadaiste che seppelliscono l’eccezionale dell’arte.

Cos’è per te l’arte?

La possibilità di accedervi, per raccontarla, per rintracciare la capacità di evocare la bellezza quale frammento in cui l’improbabile diventa plausibile.

ghermirla in un santuario dell’incontro che trascende, e per assimilarne la forma intellettuale, fuoco che divora in una preghiera intesa come chiarore nell’infinito immortale, nell’opera d’arte che, spiegava Umberto Saba, “è sempre una confessione”.

Un modo nell’immaginare l’arte come continuazione della creazione tra terra e cielo, nell’arcano che sempre si rinnova nelle grandi testimonianze che resistono al tempo in una sorta di metafisico atteggiamento di serenità imperturbabile.

Allora, nel deporre l’inganno di certa “arte”, la disputa è su interpretazione e linguaggio. L’arte è una cosa seria e non deve disumanizzare; l’arte è emozione, e non va detto cos’è e a cosa serve: è quella che mostra l’epifania dell’irrazionale.

È quella che desidera una mente dove non siano estranee la bellezza né l’osmosi tra intenzione e realizzazione, tra quello che sentiamo e quello che vediamo nel detrarre la tracciabilità dell’opera.

Ecco, quello che resta è la sostanza, ed è questa differenza a essere davvero arte.

È questo distinguo che fa un artista “grande” o una delle tante stelle cadenti.

È questo discernere che dà l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti al “capolavoro”, alla vera opera d’arte che è, diceva Friedrich Hegel, “essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”.

Per proporre arte bisogna averla studiata?

Sia che tu intenda per l’artista o per un critico la risposta è sì.

Diversamente resta difficile, soprattutto quando si pensa che l’arte sia una branca dove ciascuno può dire la propria, come per una squadra di calcio a parlarne al bar dello sport, piuttosto che tentare di manifestare qualcosa da spartire per un contributo differente.

Senza paroloni ad arrampicarsi e diatribe tra estetica e poetica, comune a tanta “cultura” odierna, per fermare l’arte nell’apporto purificante della meditazione attraverso l’esperienza contemporanea pur con tutti suoi paradossi.

Giacché l’arte così intesa ha avuto l’effetto di cambiare il nostro modo di vedere nell’alibi che fa comodo a molti e che indubbiamente conduce al famoso orinatoio di Marcel Duchamp, fonte espressiva di tanti epigoni che scagionano a loro interesse il “qualsiasi cosa” può divenire arte.

L’intento, dunque, è di riappropriarci della consapevolezza non simbolica ma laboriosa, di quanto in filosofia è la metodologia della creatività.

Cosa chiedi a un gallerista?

La professionalità e l’amore per l’arte.

Sembrano due cose scontate ma non è così.

Oggi il mercato è difficile da gestire e ci vuole tanta pazienza e molta gestione di intenti e proposte.

Purtroppo ci sono troppi affitta spazi con richieste di pagamenti per una mostra senza nulla dare in cambio: si apre e si chiude una mostra e tutto finisce lì. Inutile per l’artista.

Un vero gallerista deve esulare da questo e avere un proprio bacino di collezionisti oltre al visitatore occasionale.

Il mercato è fatto di percentuali sulle vendite e su questo bisogna concentrarsi: un investimento reciproco che si può aprire con una mostra ma che continui nel tempo mantenendo l’artista presente in galleria anche oltre e proporlo e sostenerlo nel suo percorso, magari in collaborazione con un critico d’arte che lo presenti proponendo una interpretazione.

Resta, comunque, il gallerista in un suo “linguaggio” che traduca l’esordio e l’esercizio di enunciati esecutivi e creativi, nella capacità di riconoscere l’intuizione lirica che è madre del talento, l’unico a poter dare un cambiamento, disincentivando un livellamento che non investe nei giovani, negli emergenti.

Cosa pensi dell’editoria di settore?

Quella di settore tutto bene.

Pubblicare arte è sempre buona cosa.

Certo però bisogna distinguere sul concetto di bellezza editoriale giacché non tutti i cataloghi ne sono all’altezza in una produzione non adeguata alle opere che si presentano giacché molti sono uguali in uno schema dato dal computer e non dalla mano creativa di chi lo realizza e spesso si confonde una grafica pubblicitaria con una grafica editoriale che invece è completamente diversa.

Particolarmente quando l’estetica si è asservita al mercato e noi, quali spettatori nella teoria aristotelica della catarsi tragica, nell’impotenza a dare una svolta al giudizio creativo tra mente e spirito, corpo e anima, abdichiamo alle pratiche in relazione al compito dell’arte.

Personalmente mi occupo anche di scrivere e realizzare cataloghi in modo totalmente diverso da impaginazioni ripetitive, tanto che i miei libri, monografie e cataloghi d’arte che ho realizzato per diversi artisti mi sono stati richiesti dal Metropolitan Museum di New York.

Che differenza c’è tra curatore e critico d’arte?

Sono le facce di una stessa medaglia giacché oggi i due ruoli spesso s’interfacciano in un’unica persona.

Si direbbe semplificando che il critico si occupa di scrivere un testo di presentazione e il curatore di organizzare una mostra anche nell’allestimento, di conoscere il sistema dell’arte e contatti con istituzioni e gallerie, poi la promozione, ma questo non esclude che il secondo partecipi ai testi in catalogo e il primo a intervenire sulla curatela. Inoltre entrambi frequentano gli studi degli artisti allorquando sono professionali giacché l’arte va vista dal vero.

Detto questo una differenza sostanziale c’è. Il curatore non disdegna il potere, l’influenza delle istituzioni e anche non volendo a volte è costretto a compromessi pur di raggiungere l’obiettivo prefissato, mentre il critico no, o almeno dovrebbe essere così, in una libertà di pensiero e di esclusione dal sistema per una assunzione di responsabilità.

Infine, certo il curatore scruta di più la creazione dell’opera d’arte fin dall’inizio mentre il critico guarda al dopo, a quanto già realizzato ma, ad esempio, personalmente seguo anche i due ruoli in contemporanea in modo indipendente.

Mi piace parlare con gli artisti nel condividerne le aspirazioni e magari seguirli nella fattualità del lavoro e mi piace, a richiesta, curare l’aspetto espositivo con una mia scelta delle opere da presentare per farle dialogare tra loro in un progetto che crei armonia.

E curarne un catalogo.

Grazie Andrea per il tempo a noi dedicato.

Alessio Musella

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